Speriamo che oltre alla vergogna perdano pure qualcos’altro…

Articolo tratto da Umanità Nova (online) dell’ 8 Luglio 2012, n.24 anno 92.

” Sbirri senza vergogna

Federico Aldrovandi
Sbirri senza vergogna

«Che faccia da culo che aveva sul tg…una falsa e ipocrita…spero che i soldi che ha avuto ingiustamente possa non goderseli come vorrebbe…adesso non sto più zitto dico quello che penso e scarico la rabbia di sette anni di ingiustizie» e ancora «Infatti è successo un fatto analogo a Trieste dopo il nostro, con delle responsabilità reali da parte dei colleghi e nessuno ne ha saputo nulla, io mi vergognerei di usare la politica e la mediaticità per far valere una falsa giustizia…VEGOGNATEVI TUTTI COMUNISTI DI MERDA…». Questo è quanto ha scritto su un social network il poliziotto Paolo Forlani, un assassino, che ha ucciso nel settembre 2005 a Ferrara, insieme ad altri tre agenti, un ragazzo di 18 anni, Federico Aldrovandi. Le parole erano dirette alla signora Patrizia Moretti, la madre del ragazzo assassinato. La Cassazione, il 21 giugno 2012, aveva reso definitiva la condanna a 3 anni e 6 mesi di reclusione per omicidio colposo ai 4 poliziotti Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri. In particolare la quarta sezione penale aveva respinto il ricorso presentato dalla difesa dei 4 agenti contro la condanna che era già stata emessa dalla Corte d’Appello di Bologna il 10 giugno del 2011. Secondo la sentenza l’agire dei poliziotti ha trasceso i limiti consentiti: Federico è deceduto, dunque, per un arresto cardiaco a seguito del pestaggio da parte dei poliziotti, e non riferibile, in alcun modo, all’abuso di stupefacenti. Inoltre c’è stata senz’altro cooperazione colposa nella condotta degli agenti, per via della comune scelta di azione, della consapevolezza di agire insieme, fattore che gli imponeva di controllare anche l’azione dei colleghi e nel caso di regolarla. Ma nessuno dei poliziotti è andato in carcere, visto che 3 anni sono coperti dall’indulto…e neanche hanno rischiato il posto di lavoro, infatti sono ancora tutti in servizio ma trasferiti in un’altra città. Le dichiarazioni dell’agente erano state postate sulla bacheca interattiva del gruppo «Prima Difesa», amministrato da Simona Cenni, neofascista (ex-coordinatrice regionale di Azione Sociale-Marche) che «tutela gratuitamente per cause di servizio tutti gli appartenenti alle Forze dell’Ordine e Forze Armate». Tra i commenti, oltre a quello del poliziotto condannato, c’è qualcuno che paragona Federico a un «cucciolo di maiale» e la signora Moretti, madre di Federico, ha ritenuto opportuno presentare ai carabinieri di Ferrara una denuncia-querela per diffamazione contro il gruppo-associazione «Prima Difesa». Saputo della querela, Forlani tentò di correre ai ripari chiedendo pubblicamente scusa tramite l’Ansa: “Voglio chiedere perdono per quel mio contegno estemporaneo ed assurdo”, rispedite prontamente al mittente da tutta la famiglia Aldrovandi. “E’ meglio che lasci perdere! Le sue scuse? La coscienza doveva parlargli 7 anni fa all’alba di quella mattina. Non ci può esser assoluzione per ciò che ha detto” ha dichiarato Patrizia Moretti, mentre Lino Aldrovandi, padre di Federico, aggiunge: “… non mi interessa davvero quello che dice, e in merito a Ferrara e ai comunisti di merda, io non sono comunista ma se queste persone hanno collaborato a far emergere la verità, ben vengano, io non ho mai chiuso le porte a nessuno”. Rimane il riferimento di Trieste, che forse alludeva al Commissariato di Villa Opicina, dove ci fu il sequestro di una ragazza ucraina di 32 anni, Alina Bonar Diachuk. In particolare il dirigente dell’Ufficio immigrazione della questura di Trieste, Carlo Baffi, è indagato per omicidio colposo e sequestro di persona in relazione al “suicidio” della ragazza: la giovane è morta il 16 aprile scorso in una cella della questura, dove era stata rinchiusa illegalmente in attesa dell’espulsione. Un suicidio che era apparso da subito poco credibile, e che aveva fatto scattare una indagine che ha portato all’incriminazione di Baffi per sequestro di persona e omicidio colposo. Durante la perquisizione nell’abitazione dell’agente e nel suo ufficio, all’interno della Questura del capoluogo friulano, i finanzieri e i poliziotti trovarono busti, foto e poster di Mussolini, i libri “Mein Kampf” di Adolf Hitler, la “Difesa della razza” di Julius Evola, “La questione ebraica” di Julius Streicker e altro materiale antisemita. Il suo avvocato, Paolo Pacileo, ha presentato subito un’istanza al Tribunale del Riesame per l’annullamento del verbale di sequestro dei libri e dell’altro materiale, tra cui sei proiettili di pistola non denunciati e una copia della targhetta dell’Ufficio immigrazione delle dimensioni di un foglio protocollo, sulla quale era inserita a destra una foto di Mussolini e a sinistra la scritta “il dirigente dell’ufficio epurazione” in caratteri romani simili a quelli usati nel Ventennio. Proprio il ritrovamento di questa targa innescò la perquisizione della casa di Carlo Baffi. Durante le indagini gli inquirenti hanno sequestrato 49 fascicoli in originale relativi ad altrettanti cittadini extracomunitari anch’essi, in attesa dell’espulsione, detenuti illegalmente al commissariato di Opicina. Una pratica consolidata, un vero e proprio sistema che è assai improbabile che abbia avuto per protagonista il solo Baffi, che però per ora rimane l’unico indagato: le vittime del poliziotto sono, per quello che finora è dato sapere, tutti cittadini stranieri. Pronta la presa di posizione dell’ANFP (Associazione Nazionale Funzionari di Polizia) in sostegno del dirigente dell’Ufficio Immigrazione, che fa polemica politica con la magistratura definendosi fortemente perplessa sul sequestro di oggetti personali e di libri operato presso l’ufficio ed il domicilio del funzionario e lamentandosi dell’acquisizione dei soli testi che costituiscono espressione del pensiero di estrema destra, mentre si sarebbe ritenuto di tralasciare quelli che si riferiscono, per contro, all’ideologia di estrema sinistra. Il sodalizio sindacale poliziesco polemizza insinuando: “se il sequestro effettuato mira all’individuazione di elementi utili ai fini delle indagini, appare evidente come la doverosa documentazione del contestuale possesso di testi di entrambe le nature – peraltro assolutamente fisiologico per un funzionario che, come il collega BAFFI, ha prestato servizio presso una Digos – rischi di essere irrimediabilmente compromessa dalla incomprensibile “obliterazione” di elementi di significato opposto rispetto a quelli di pretesa rilevanza.” L’associazione, quindi, cerca di giustificare Baffi buttandola sul suo lavoro presso la Digos. Ora, d’accordo che un “poliziotto che sa fare il suo mestiere” deve essere informato sulle varie ideologie, però forse non è richiesto ad un funzionario di polizia di possedere nel proprio ufficio e nella propria abitazione busti, foto e poster del duce stile altarini e soprattutto una scritta che paragona il suo incarico con l’ufficio epurazione del regime. Visto che il 70% dei funzionari della Polizia di Stato sindacalizzati si riconosce nell’ANFP, quindi nel comunicato sovracitato, pare evidente che il legame tra neofascismo e Polizia di Stato sia molto stretto, o quantomeno lo è nella cultura, al di la della propaganda ingannevole antistatalista e antipoliziesca di alcuni gruppi o partiti fascisti. Che la polizia italiana fosse fascista lo aveva già dichiarato pubblicamente il quotidiano britannico «Guardian» nel luglio del 2008 in un articolo in cui si occupò dei fatti di Genova. Il giornale londinese spiegava alcune pratiche usate sui civili, picchiati senza pietà, in modo sistematico, non per ottenere una confessione ma semplicemente per il gusto sadico di infliggere un dolore. In un’inchiesta di sette pagine intitolata «La sanguinosa battaglia di Genova», il Guardian denunciò: «Questo non è il comportamento di un gruppo di esaltati. Questo è fascismo». Durante i pestaggi alla scuola Diaz e le torture nel carcere di Bolzaneto, racconta il quotidiano britannico, i poliziotti parlavano in modo entusiastico di Mussolini e Pinochet. I loro cellulari avevano suonerie con le tradizionali canzoni del ventennio. E i prigionieri furono costretti a dire più volte «Viva il Duce» o «Un, due, tre, viva Pinochet». Non stiamo parlando di un fascismo messo in atto da dittatori «con gli stivali neri e la bava alla bocca» ma del pragmatismo di politici dalla faccia pulita. «Il risultato però – dice il Guardian – è molto simile. Genova ci insegna che quando lo Stato si sente minacciato, la legge può essere sospesa. Ovunque».
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