Blockupy Frankfurt 2015.

Il 18 Marzo prossimo è la data prevista per l’inaugurazione della nuova sede della Banca Centrale Europea a Francoforte sul Meno. Per l’occasione una rete di gruppi, collettivi, attivisti/e della sinistra più o meno radicale, dell’area antagonista/autonoma/comelavoletechiamare, sindacalisti ed altri/e ancora si sono dati appuntamento nel cuore finanziario della Germania per rilanciare la lotta contro le politiche di austerity neoliberiste. Pur con qualche riserva e critica a tratti di non poco peso riguardo parte delle analisi e delle proposte prodotte finora dal coordinamento che organizza Blockupy, per non parlare di alcuni gruppi e realtà politiche che vi prenderanno parte, ritengo che sia importante per movimenti e individualità anarchici/che cogliere al volo quest’occasione di mobilitazione e rilancio di proposte e progetti alternativi al sistema dominante, portando all’interno di questa come di altre lotte contenuti, analisi, proposte e azioni di stampo libertario. E poi, detto sinceramente, poter cagare in mezzo al banchetto dei padroni d’Europa e dei loro lacché non è certo un’occasione da perdere.

Di seguito l’appello alla mobilitazione in lingua italiana, tratto dal sito Blockupy.org:

blockupy18m-aufruf2“Dieser Post ist auch verfügbar auf: Inglese, Tedesco

Il 2015 è iniziato con qualcosa di inaudito. Il popolo greco si è opposto a tutte le minacce provenienti dall’Europa eleggendo un nuovo governo di sinistra. È accaduto dopo 5 anni rovinosi, che hanno costretto la popolazione greca a una costante lotta contro la crisi umanitaria e la distruzione sociale. Questo governo è stato eletto per resistere alle istituzioni europee, per non accettare più le misure di austerità imposte alla gente. Noi appoggiamo la decisione del popolo greco di rifiutare la dottrina neoliberale che scandisce il solito ritornello «nessuna alternativa all’austerità». Questa decisione ci dà nuovo potere e apre la possibilità di un futuro differente, tanto più considerando altri importanti movimenti popolari come quello attivo in Spagna. Proprio in questi giorni per le strade di Madrid centinaia di migliaia di persone hanno detto a voce alta: «si può e si vincerà di nuovo!». Poco dopo, l’11 febbraio, in Grecia e in tutta Europa centinaia di migliaia di persone hanno riempito le piazze, lo stesso giorno in cui l’Eurogruppo ha aperto la rinegoziazione del debito greco. Si è scatenata così un’ondata transnazionale di solidarietà.

Questo senso di potere dà speranza a milioni di persone in Europa e incoraggia la resistenza contro il regime della crisi. La solidarietà per il popolo greco e per le sue decisioni democratiche non è solo un obbligo per noi, ma è anche un nostro comune interesse: l’interesse di chiunque in Europa lotta contro le logiche dell’austerità e per migliorare le proprie condizioni di lavoro e di vita. Per questo diciamo: è giunto il momento di agire! Per questo chiamiamo tutte e tutti, da ogni parte d’Europa, a unire le nostre forze transnazionali contro l’apertura della BCE il 18 marzo a Francoforte!

È vero, il regime della crisi europeo è cambiato nel corso del tempo: le riunioni di emergenza dell’UE sembrano essersi fermate e i paesi stanno lasciando il fondo di salvataggio dell’euro. Tuttavia, la pressione esercitata oggi sulla Grecia dimostra che ciò non significa affatto che l’Unione europea e le misure della BCE siano terminate. Il ricatto non si è fermato – tutt’altro. Le istituzioni europee reagiscono ogni volta che sono minacciate, rispondono a loro volta con le minacce e non esitano a riattivare dure misure di austerità. Contemporaneamente, ci troviamo di fronte a qualcosa che appare quasi normale: una nuova terribile normalità della precarietà e della povertà, divenuta realtà attraverso le politiche neoliberiste che sono state attuate durante la crisi. Queste misure si sono radicate saldamente nelle istituzioni statali e non sono soltanto temporanee. Esse favoriscono governi autoritari, sostengono l’ulteriore smantellamento della partecipazione democratica, l’attacco alle condizioni di lavoro, lo sfruttamento delle gerarchie costruite sul regime dei confini. Esse rimandano alla militarizzazione della politica interna ed estera, al crescente razzismo e all’estremismo di destra. In questi ultimi anni, la famigerata Troika e la governance neoliberista hanno aperto una strada a una nuova fase in Europa: un modello precario dei diritti sociali limitati, un modello di controllo e di competizione a cui noi rifiutiamo di abituarci!

Ora sentiamo le élite e i governi gridare forte – con la Germania in prima linea – contro la richiesta del popolo greco di fermare e invertire le privatizzazioni, contro le rivendicazioni di diritti sociali e di una tassazione che colpisca la ricchezza, contro il suo rifiuto di pagare un debito e un interesse che non ha causato. Le élite e i governi temono l’effetto domino che sta attraversando l’Europa; hanno paura che il loro «programma» di competitività e di controllo neoliberale imposto come modello europeo sia ora sul punto di sgretolarsi.

Uno dei principali agenti del ricatto e della normalizzazione dell’austerità, del bastone e della carota, è proprio la BCE. Con la Commissione europea e il Fondo monetario internazionale, essa è parte integrante della scellerata Troika che, insieme al Consiglio dell’Unione europea, ha promosso l’austerità e le privatizzazioni, con il conseguente impoverimento e la precarietà di gran parte delle popolazioni in Europa. Chiedendo di non accettare i titoli greci come garanzia per i prestiti della banca centrale, la BCE impone la continuazione della politica di austerità, prendendo direttamente e chiaramente le parti del governo tedesco.

Per questo Blockupy fa ancora una volta appello per ampie azioni transnazionali contro la BCE, proprio quando sarà inaugurata la sua nuova sede a Francoforte il 18 marzo. Una torre alta 185 metri, simile a una fortezza circondata da una barriera di sicurezza e da un fossato, un simbolo di potere che è costato la cifra sbalorditiva di 1,3 miliardi di euro. Il nostro appello per forti, diffuse e vivaci proteste europee lanciato mesi fa ha già lasciato il segno: la BCE ha annunciato che il gran gala previsto inizialmente sarà ridimensionato in un semplice brindisi. Tuttavia, il numero degli ospiti non ci ha mai interessato. La nostra protesta comporta una critica radicale del suo lavoro – la progettazione, l’esecuzione e la normalizzazione delle misure di austerità.

Sappiamo che Francoforte è il posto giusto per ritrovarci – precari, migranti, operai, attivisti sociali, forze di emancipazione. Sappiamo che non saranno i governi di sinistra a risolvere tutti questi problemi: la vera dinamica inizia nelle strade e nelle piazze, tra i gruppi e le associazioni, all’interno e all’esterno dei luoghi di lavoro come una dinamica sociale. Non ci limiteremo a dimostrare la nostra solidarietà al popolo greco e verso la sua decisione democratica, ma chiariremo anche che non c’è alcun conflitto di interessi tra la gente in Europa. Questa lotta riguarda tutti i popoli in Europa e le lotte, in Grecia e altrove, hanno aperto la strada per tutti noi!

Se non ora, quando? Più rumorosi e forti che mai, facciamo appello per realizzare azioni transnazionali il 18 marzo davanti alla BCE a Francoforte! Il 18 marzo è il momento giusto per convergere a Francoforte, per intensificare i nostri sforzi e per fare in modo che tutti si uniscano alla lotta. Questo è il momento per essere li fulcro della lotta transnazionale dentro e contro il ventre della bestia. Questo è il momento per giudicare la BCE responsabile per le sue politiche e pretendere con forza una direzione politica diversa. Il 18 marzo è tanto la nostra occasione quanto la nostra responsabilità di costruire una comune ed efficace forza dal basso: se loro vogliono il capitalismo senza democrazia, noi vogliamo la democrazia senza il capitalismo.

Il 18 marzo ci prenderemo le strade e le piazze di Francoforte, intorno al nuovo edificio della BCE e nel centro della città con migliaia di persone provenienti da tutta Europa. Ci incontreremo di mattina intorno alla BCE per mettere in campo azioni di disobbedienza civile per bloccare la sua autocelebrazione, interrompendo la normale giornata di lavoro. Sono attività pensate per la partecipazione di massa, costruite con un consenso comune, per questo ognuno è invitato a partecipare. Seguirà poi nel pomeriggio una forte, colorata e vivace manifestazione.

Unisciti all’azione, unisciti ai blocchi della BCE al mattino, ai presidi e alla manifestazione nel pomeriggio: prima abbiamo preso Atene, ora tocca a Francoforte!

Per maggiori informazioni, visita il sito di Blockupy: quanto più ci avviciniamo al 18 marzo, quanto più saranno dettagliate le informazioni che troverai sulle attività, i trasporti e l’accoglienza, il programma del presidio e della manifestazione e molto altro. Per chiedere chiarimenti si può scrivere ainternational@blockupy-frankfurt.org o collegarsi su Twitter (@blockupy #18M) e Facebook”

TTIP e CETA, il neoliberismo che avanza.

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Attualmente UE e USA stranno mettendo a punto un contratto commerciale e sugli investimenti chiamato TTIP (“Transatlantic Trade and Investiment Partnership”, ovvero “partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti”), mentre un simile accordo tra Canada e Unione Europea, chiamato CETA, sta per essere ratificato. Il TTIP, discusso e steso a porte chiuse da un’apposita commissione europea, verrà infine sottoposto all’approvazione del parlamento europeo che non potrà modificarlo, ma solo approvarlo o respingerlo così com’è, il che vale anche per i parlamenti nazionali che dovranno a loro volta deciderne l’approvazione o meno.  Ma di cosa si tratta realmente, cosa stabilisce questo accordo, chi ne giova e quali sono le ricadute sul piano economico, sociale, ambientale, umano? Innanzitutto va detto che l’obiettivo principale del TTIP, del quale solo alcuni dettagli dell’accordo steso in segreto sono finora trapelati, è quello di limitare ulteriormente l’influenza degli Stati nell’economia capitalista, facilitare gli scambi e aumentare il volume degli investimenti a livello internazionale creando la più grande area mondiale di libero scambio, accrescere il potere delle grandi imprese, creare o espandere il mercato a settori non ancora (o limitatamente) da esso coinvolti. Il trattato permette alle imprese private di citare in giudizio gli Stati, portandoli di fronte a un tribunale privato, al fine di impedire che un qualche governo possa interferire con gli interessi dell’impresa stessa e con la sua accumulazione di profitto, costringendo lo Stato (o per meglio dire i contribuenti di tale Stato) a pagare somme esorbitanti in caso di sconfitta, il che fungerebbe anche come deterrente nel caso un governo dovesse avere la malaugurata idea di contrastare i piani di una qualche multinazionale. Accordi commerciali di questo tipo hanno solitamente durata ventennale, il che renderebbe inutile qualsiasi legislazione promulgata in tale arco di tempo tesa ad ostacolarli o “ammorbidirli”. Un altro aspetto previsto dagli accordi è l’ulteriore liberalizzazione di settori pubblici quali trasporti, smaltimento rifiuti, servizio idrico e postale, sanità, beni culturali, che una volta privatizzati difficilmente (nel migliore dei casi!) potrebbero tornare in mani pubbliche. Anche le norme legislative in materia di tutela ambientale, difesa dei/lle consumatori/trici, trattamento dei dati personali, diritti dei/lle lavoratori/trici verrebbero messe in discussione qualora dovessero interferire con la libertà delle imprese. Le conseguenze sono facili da dedurre: riduzione degli standard sociali, sfruttamento ambientale ed umano sempre più sconsiderato, aumento del divario tra ricchi e poveri, difficoltà di accesso per le fasce sociali più svantaggiate a servizi di fondamentale importanza, riduzione della trasparenza. Per il grosso capitale ed i suoi vassalli si tratta di un’occasione da non perdere e per convincerci ci prospettano con l’introduzione di TTIP e CETA un aumento del PIL dei Paesi firmatari dei trattati, aumento dei posti di lavoro e vivacizzazione dei mercati con conseguente miglioramento del tenore di vita per tutti… Ma sí, siate euforici, potrete esportare più facilmente prodotti italiani negli USA e importare dagli USA mais transgenico, simpatiche attività quali il fracking saranno all’ordine del giorno, dovrete avere l’assicurazione sanitaria privata, ma magari con un pò di fortuna vi verrà permesso di vendere un organo vostro o di un vostro familiare per pagarvi le spese, nel caso non siate prima tentati di investire i soldi ricavati in qualche prodotto finanziario garantito da sorridenti banksters e dalla loro parola di boyscout. Non vorrete mica rifiutare il progresso e la modernità, se perdete l’occasione sarete tagliati fuori dalla più grande area di libero mercato svincolato da tutti i vincoli del mondo e il vostro Paese farà la fine dell’Italia (ah, ma il vostro Paese È l’italia…vabbé, ‘sticazzi, volevo dire della Grecia!). Viva la libertà -di essere ancor più schiavi!

Tutto ciò sembra terribile, vero? Eppure non si tratta di una qualche mostruosità uscita dalle menti malate di pochi avidi ricconi da far rientrare nei ranghi del buonsenso grazie a leggi e parlamenti, ma solo della naturale evoluzione della struttura economica capitalista. Gli Stati hanno da sempre offerto al capitalismo l’appoggio e la protezione necessari per andare avanti anche nei momenti di crisi e ora, nonostante qualche prevedibile ma suppongo isolata reticenza, sapranno farsi da parte -senza pertanto sparire- per garantire maggior libertà di movimento ai capitali sul mercato. Chi oggi pensa di trovarsi di fronte a un incubo ha dormito troppo a lungo, perchè l’incubo esiste da parecchio ed ha solo cambiato forma adattandosi ai tempi e alle necessità storiche, ha già da tempo invaso gli aspetti più intimi delle nostre vite e della nostra psiche, influenza i nostri comportamenti, i nostri stili di vita, i nostri modelli di riferimento, desideri, ambizioni, progetti per il futuro e si riproduce anche grazie a noi, alla nostra collaborazione più o meno volontaria e più o meno consapevole, alla nostra passività, alla nostra incapacità di immaginare (figuriamoci costruire!) una realtá diversa sottraendoci a scelte obbligate e mettendo in discussione presunte certezze che ci tengono ancorati alle nostre forme di sudditanza. Non ci si deve quindi stupire se siamo arrivati fino ad una evoluzione come quella prospettata da accordi quali TTIP e CETA, preceduta da altri accordi e associazioni come NAFTA ed EFTA, a loro volta frutto di scelte e circostanze ancor più vecchie, ma non si dovrebbe nemmeno pensare che invertire la tendenza sia impossibile. Bloccare questi nuovi accordi commerciali, che evidenziano per l’ennesima volta l’incompatibilità tra i più basilari interessi reali dell’umanità e gli interessi del sistema economico capitalista, significherebbe recuperare punti su quel terreno di lotta che non può prescindere dalla partecipazione degli oppressi e degli sfruttati di tutto il mondo. Non si tratterebbe di una vittoria sulla quale adagiarsi, ma del recupero di una posizione importante dalla quale ripartire per mettere in discussione e contrastare in maniera profonda qualsiasi forma di capitalismo, sia essa la variante socialdemocratica o quella neoliberista, e, più in generale, qualsiasi forma di dominio.

Interviste sul (e dal) Kurdistan: dalla resistenza ad una nuova forma di società.

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Spesso non è facile reperire informazioni attendibili e di prima mano sugli sviluppi della situazione in Rojava, sulla natura dei cambiamenti in corso nel kurdistan siriano e sulla situazione e le prospettive rivoluzionarie dei curdi in Siria. L’ultima buona notizia giunta nei giorni scorsi è che la città di Kobane è ora nelle mani delle forze di autodifesa popolare e le truppe dello Stato Islamico si sono ritirate, ma è necessario andare oltre i resoconti delle battaglie sul piano militare e le notize fornite dai media mainstream che ignorano volutamente l’esistenza di milizie popolari di fondamentale importanza come YPG e YPJ e non parlano dell’autogestione in chiave emancipatoria della comunità locali. Soprattutto negli ambienti anarchici/libertari/antiautoritari crescono attenzione e dibattito sulla genuinità della rivoluzione sociale in Rojava e c’è chi, come David Graeber, arriva addirittura a fare paralleli tra la rivoluzione spagnola del 1936 e l’attuale situazione nel kurdistan siriano.

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Le informazioni su quella che è la realtà quotidiana, le forme di organizzazione democratiche di base, il ruolo delle organizzazioni politiche, le prospettive emancipatorie, egualitarie e antiautoritarie, vanno cercate tra quelle fornite da chi vive nei territori interessati o da essi proviene o chi è stato in tempi recenti in quelle zone, resoconti attendibili e analisi verosimili dei fatti necessari per avere un quadro più completo della situazione in corso e per consentirci eventualmente di immaginare sulla base degli eventi in corso i possibili sviluppi futuri, ma anche per avere un punto di partenza nel caso si voglia contribuire concretamente ad aiutare, per quanto possibile, gli sforzi di chi combatte per quella che noi riteniamo essere una causa condivisibile. Ho deciso perciò di segnalare alcuni resoconti diretti e interviste che trattano gli aspetti dei quali ho appena accennato. Penso che le eventuali divergenze su alcuni fatti e opinioni riportati e qualche imprecisione (dovuta, immagino, a errori di traduzione o di mancata correzione dei testi) non intacchino la validità né l’importanza delle testimonianze:

Il resoconto di Zaher Baher dalla sua visita in Rojava (riportato sul sito di Barbara Collevecchio);

Intervista col Kurdistan Anarchist Forum sulla situazione in Iraq/Kurdistan (riportato sul sito di Barbara Collevecchio);

Intervista al comandante delle YPG a Serêkaniyê (dal sito dell’ onlus Ufficio di informazione del Kurdistan in Italia);

Intervista al giornalista Ozgur Amed (dal sito ZNET Italy);

Intervista a compagni e compagne del DAF (pubblicato su Umanità Nova);

Intervista al fumettista Zerocalcare al ritorno dal suo viaggio in Rojava (dal sito Il Becco del Tucano).

Curdi vs. Stato Islamico: un pò di chiarezza.

Già da diverse settimane avrei voluto buttar giù alcune riflessioni sugli avvenimenti in corso tra il nord dell’Iraq e la Siria, dove imperversa attualmente una guerra tra le popolazioni curde e i fondamentalisti islamici dell’ISIS (Stato Islamico in Siria e Iraq) o IS che dir si voglia. Al centro di tali riflessioni ci sarebbero state, come spesso accade quando scrivo su questo blog, più domande che risposte: da dove viene l’ISIS e da chi è stato appoggiato e aiutato a crescere militarmente questo schieramento? Qual’è il ruolo delle potenze occidentali (USA in primis) e degli altri Paesi dell’area mediorientale nell’attuale conflitto? Perchè le simpatie e l’appoggio da parte degli/lle anarchici/che dovrebbe andare ai curdi, oltre che per il fatto che essi lottano per la propria sopravvivenza minacciata da gente che porta avanti idee a progetti per noi a dir poco ripugnanti? E il PKK, non si trattava di un’organizzazione di stampo stalinista, lontana anni luce da concezioni e progettualità libertarie? A dare le risposte a queste ed altre domande ci pensa un articolo tra i migliori che io abbia letto di recente, conciso (sì, è ben difficile esaurire un argomento del genere in uno spazio più breve!) ma al tempo stesso abbastanza completo, che riporto di seguito, tratto dal sito Anarkismo:

“Tra le macerie dell’imperialismo USA:

Il PKK, le YPG e lo Stato Islamico


Le notizie che vanno per la maggiore raccontano le storie degli orrori commessi dallo Stato Islamico (IS) in Siria ed in Iraq ma anche di come gli Stati Uniti vogliano apparentemente mettere fine a questi orrori per ragioni umanitarie. Quello che non viene mai detto dai media privati e di Stato è da dove viene l’IS, quali sono le vere ragioni di questo nuovo intervento degli USA in Medio Oriente, della volontà degli USA di isolare e distruggere le uniche due forze che stanno realmente combattendo contro l’IS: il PKK e le YPG.

Come è nato lo Stato Islamico

L’evoluzione dell’IS da oscuro gruppo a forza di rilievo in Medio Oriente risale all’invasione ed occupazione statunitense dell’Iraq nel 2003, che portò alla morte di 1 milione e 400mila persone e ad atti di brutalità nei confronti della popolazione. Cosa che naturalmente ha alimentato sentimenti anti-USA in tutto il paese.

L’occupazione statunitense dell’Iraq si basava sulla tattica del divide et impera. Allo scopo di indebolire le possibilità di una resistenza unitaria all’occupazione, gli USA hanno appoggiato l’autonomia di parti del popolo curdo nell’Iraq settentrionale sotto il governo del Governo Regionale Curdo (KRG), guidato da un corrotta classe dominante filo-USA. Gli Stati Uniti hanno anche favorito la violenza settaria in Iraq, sempre per rendere difficile ogni unità popolare contro l’occupazione. In questo quadro rientra l’appoggio ad un governo fantoccio – nonostante fosse guidato dalla linea dura dei politici sciiti più vicini al regime iraniano – che ha represso ampi settori della popolazione sunnita.

E’ in questo contesto che l’IS si è sviluppato come forza sotto la guida di Abu Bakr al-Baghdadi. Molte persone, in particolare sunniti, si sono unite all’IS perché lo vedono come l’unica organizzazione capace di difendere la popolazione sunnita e di resistere tanto all’occupazione USA quanto al governo fantoccio di Baghdad. Ecco perché l’IS ha guadagnato un sostegno di base nonostante sia un’organizzazione brutale ed autoritaria.

Benché l’IS sia un’organizzazione anti-imperialista ed anti-USA, lo è da una posizione reazionaria e di estrema destra. Da tempo persegue lo scopo di instaurare uno stato totalitario sotto la sua dittatura che incorpori ampie porzioni del Medio Oriente. Nel perseguimento di questi suoi ambiziosi scopi politici l’IS si è fatto una storia di atrocità ed omicidi di massa commessi contro i suoi oppositori, siano essi musulmani o membri di rivali gruppi jihadisti. Tutti quelli ritenuti come loro oppositori sono stati trattati con estrema violenza, specialmente coloro dimostratisi riluttanti o non disposti ad abbracciare la loro ideologia estremista. Nella loro politica è centrale la sistematica oppressione delle donne. Tale visione misogina si è tradotta nella riduzione in schiave sessuali delle donne catturate.

Inizialmente, quando l’IS iniziava ad essere una forza in Iraq, gli USA chiusero deliberatamente un occhio, anche se c’erano le prime atrocità, perché gli Stati Uniti volevano che l’Iraq restasse diviso. Quando gli USA se ne sono andati dall’Iraq nel 2011, l’IS controllava già parti del paese.

L’intervento in Siria getta benzina sul fuoco

Non contenti di aver destabilizzato l’Iraq, nel 2011 gli USA iniziarono ad usare le proteste di massa e la guerra civile che ne è seguita in Siria per destabilizzare ed indebolire il regime di Assad. Non si trattava ovviamente di un loro appoggio alle proteste ed alle frazioni in lotta contro il regime di Assad nella guerra civile, perché non era loro interesse sostenere la domanda di democrazia in Siria, quanto piuttosto per gli USA di difendere i propri interessi imperialisti. Era evidente che per gli USA il regime di Assad era troppo vicino alla Russia ed all’Iran. Infatti, gli USA non volevano destabilizzare il regime siriano per la sua brutalità – di ieri e di oggi – quanto perché il governo siriano non era del tutto in linea (per sue proprie ragioni) con i programmi dell’imperialismo USA nella regione.

Quando nel 2011 in Siria scoppiarono le proteste popolari contro il regime, nel contesto della Primavera Araba e sulla base di un reale desiderio di mettere fine alla dittatura di Assad per creare una società migliore nel paese, gli Stati Uniti si attivarono per trarre vantaggi dalla nuova situazione. Benché le proteste di massa in Siria non fossero alimentate dagli USA, questi le hanno usate e retoricamente sostenute per cercare di far progredire i loro piani.

Alla brutale repressione delle proteste da parte del regime di Assad è seguita la guerra civile, in cui sono emersi vari gruppi armati. Alcuni erano jihadisti, altri più laici. Alcune frazioni dell’esercito al comando di generali corrotti hanno abbandonato il regime agli inizi della guerra civile costituendosi in Esercito Siriano Libero (FSA), subito rifornito di armi dagli USA.

Ma, nonostante le posizioni anti-USA, gli Stati Uniti hanno armato anche vari gruppi estremisti islamici e jihadisti che erano entrati in guerra contro il regime siriano. Ben presto molti miliziani di questi gruppi estremisti sono entrati nell’IS (che agli inizi era vagamente legato ad al-Qaeda, per poi distaccarsene per differenze politiche e tattiche). Alcune delle più importanti forze combattenti che sono entrate nell’IS erano milizie con esperienze di combattimento in Cecenia, a cui gli USA hanno fornito armamenti appena si sono unite alla guerra in Siria. Come risultante di questo processo in Siria, l’IS è diventato una della più potenzi forze militari – essendosi dotato di armamenti tra cui i carri armati T-55 e T-72 ed i missili SCUD presi dalle altre forze e di equipaggiamento di origine USA portato dalle altre forze jihadiste – e dal 2013 è padrone di parti della Siria, in particolare della città di al-Raqqa.

Nelle città siriane sotto il suo controllo, come al-Raqqa, l’IS ha instaurato una dura dittatura. Chiunque viene visto come un oppositore viene eliminato, anche tramite esecuzioni di massa. Il controllo dell’IS non viene esercitato solo sulla base della paura, ma anche sull’erogazione di welfare. L’IS ha effettivamente nazionalizzato alcune industrie, il settore bancario, lasciando anche che alcune industrie rimanessero alla proprietà privata. Ha anche imposto tasse più alte per i ricchi, sviluppando con tali proventi maggiori servizi sociali. Nonostante, dunque, sia una forza di estrema destra, l’IS si è guadagnato con tali misure il sostegno delle popolazioni delle aree siriane sotto il suo controllo.

Nel 2014, l’IS ha usato le sue basi in Siria per lanciare nuove operazioni militari in Iraq. Nel corso di questa nuova fase della sua campagna militare in Iraq ha sconfitto l’esercito iracheno in diverse parti del paese, appropriandosi di grandi quantità di moderni armamenti USA che erano stati forniti all’esercito iracheno. Quando l’IS ha assediato pozzi di gas e di petrolio iracheni di importanza per gli USA ed è divenuto una minaccia militare per il governo iracheno e per il KRG alleati degli ISA, allora l’IS è diventato un problema per gli Stati Uniti.

Il sostegno al KRG ed al governo iracheno

Per assicurarsi la riconquista dei pozzi di gas e di petrolio occupati dall’IS e per fermarne l’avanzata in Iraq, gli Stati Uniti stanno fornendo servizi di intelligence ed armi al KRG ed al governo iracheno. Gli USA hanno anche condotto attacchi aerei contro l’IS in Iraq e di recente in Siria su aree come al-Raqqa. La realtà però è che l’esercito iracheno ed il KRG sono stati inefficaci contro l’IS. Il che ha portato gli USA a dispiegare delle forze speciali in Iraq, apparentemente a supporto dell’esercito iracheno e dei curdi del KRG, ma in realtà per affrontare direttamente l’IS. Certo è che se il governo iracheno ed il KRG continuano a dimostrarsi inefficienti contro l’avanzata dell’IS, gli USA potrebbero essere costretti ad impiegare altre truppe per cercare di fermare l’IS.

Le forze progressiste

Ci sono, comunque, forze progressiste – il PKK e le YPG – in Iraq ed in Siria che si sono dimostrate efficaci, ancorché male armate, nel contrastare l’IS. Ma gli USA si rifiutano di appoggiare il PKK e le YPG contro l’IS, a causa della politica progressista di questi due gruppi.

Il PKK ha una lunga storia di lotta di liberazione nazionale contro la Turchia, alleato degli USA, ed è considerato da questi un’organizzazione terroristica. Nel corso di questa guerra, i quadri del PKK hanno acquisito una vitale esperienza militare.

Recentemente, il PKK ha combattuto l’IS per fermarne l’espansione nel nord dell’Iraq dove si stava rendendo responsabile di atrocità contro le popolazioni residenti. Lo scorso agosto il PKK si è mobilitato dalla Turchia in Iraq per fermare il massacro dei rifugiati curdi da parte dell’IS. E continuano a mantenere posizioni chiave nell’Iraq settentrionale.

Nonostante l’iniziale influenza maoista, il PKK e soprattutto il suo fondatore Abdullah Öcalan sono stati fortemente influenzati da alcune idee – sebbene non tutte – del socialista libertario Murray Bookchin. Lo stesso Bookchin che agli inizi della sua vita politica era uno stalinista, si è poi spostato su posizioni anarchiche adottando una forma di socialismo libertario fondato sul comunalismo e sul municipalismo libertario. Per cui, anche se il PKK nasce come gruppo di guerriglia marxista-leninista, a partire dai primi anni 2000, è andato adottando le idee di sinistra libertaria, cuore degli scritti di Bookchin.

Avendo parte di esso fatto dei passi verso una forma di libertarianismo di sinistra, il PKK ha assunto posizioni critiche sullo Stato come struttura, ora visto come oppressivo, gerarchico ed in ultima analisi difensore di una minoranza dominante e del capitalismo. Lo scopo del PKK ed il fine delle sue lotte è una rivoluzione nel Medio Oriente, cosa che induce gli USA a diffidare. All’interno di questa rivoluzione ed in linea con il suo orientamento da sinistra libertaria, il PKK ha esplicitamente stabilito che non è suo scopo creare uno stato, bensì un sistema di democrazia diretta che verrebbe istituito da assemblee popolari, consigli e comuni confederati tra loro. Questo sistema è stato chiamato “confederalismo democratico”. Sebbene questo sistema sia anti-statalista, reputi lo Stato quale ostacolo decisivo alla libertà ed all’uguaglianza e fornisca una visione dell’auto-governo basato sulla democrazia diretta, permangono degli elementi di ambiguità tattica sul fatto se lo Stato debba essere esplicitamente liquidato nel processo rivoluzionario (come sostengono gli anarchici) o se lo Stato possa semplicemente ritirarsi all’interno di un espandersi della democrazia diretta, senza necessariamente essere liquidato.

Oltre ad essere per una forma di auto-governo libertario, il PKK è anticapitalista e punta a cercare di costruire un’economia che sia gestita per soddisfare i bisogni del popolo. Per cui si punta a creare un’economia più ugualitaria, ma non è stato stabilito se tale economia sarebbe basata sull’autogestione dei lavoratori e sulla socializzazione dei mezzi di produzione e della ricchezza. Perciò, sebbene sia stato fortemente influenzato da idee di sinistra libertaria e benché si tratti di un movimento progressista (anche alla luce della forte presenza femminista), il PKK non può essere considerato come del tutto anarchico.

Gli USA, ovviamente, non prendono bene la politica progressista del PKK dal momento che se una rivoluzione basata sulle idee del PKK dovesse prendere piede in Medio Oriente, gli interessi imperialisti statunitensi nella regione verrebbero completamente compromessi.

Influenzati da alcune di queste idee del PKK, ma apparentemente non da tutte, i Curdi nella Siria settentrionale – un’area nota come Rojava – hanno iniziato dal 2011, all’indomani della rivolta contro il regime siriano, a istituire consigli ed assemblee. Questi organismi – a volte definiti col termine di comuni – sono confederati insieme nel Comitato Supremo Curdo che funziona come organismo di coordinamento. Sebbene si tratti di strutture basate sulla democrazia diretta, non è chiaro se anche l’economia sta subendo trasformazioni in una direzione più ugualitaria. Cioè non è chiaro se la democrazia diretta nella sfera politica sia stata estesa anche alla sfera economica. Inoltre, non è chiaro – e non è menzionato nei vari report – se nella Rojava ci siano stati dei passi verso la socializzazione o la collettivizzazione dei mezzi di produzione e della ricchezza, anche se si sa di redistribuzione delle terre. Nonostante ciò, la sperimentazione di consigli e di assemblee nella Rojava va avanti (pur in presenza di minacce interne da parte di partiti che vorrebbero istituire una struttura statalista). Ciò che anche è progressista e che va avanti è la liberazione delle donne, che è uno dei fronti avanzati delle iniziative nella Rojava.

Per difendere il territorio della Rojava sono state istituite nel 2011 le YPG, una struttura militare a milizie. All’interno di esse le donne svolgono un ruolo dirigente. Sono state le YPG le forze più efficienti nei combattimenti contro l’IS in Siria. Certo è che la milizie YPG hanno acquisito esperienza come combattenti in un breve lasso di tempo, dal momento che prima di essere impegnate nella difesa del territorio contro l’IS, le YPG hanno dovuto difendersi da elementi del FSA (con cui però sono ora alleate in chiave anti-IS), o da altri gruppi jihadisti e dall’esercito siriano.

Per tutto il 2013 ed agli inizi del 2014, le YPG hanno fatto arretrare l’IS allargando i confini della Rojava. Alla fine del settembre 2014, però, l’IS ha lanciato un’altra grande offensiva contro la Rojava, utilizzando non meno di 40 carri armati contro le YPG che invece non dispongono di sufficienti armi pesanti. Attualmente, le YPG stanno combattendo una grande battaglia contro l’IS per il controllo della strategica città di Kobani, dentro il territorio della Rojava. Con i recenti bombardamenti degli USA contro l’IS nella Rojava, l’IS ha spostato ancora altre forze sul fronte di Kobani.

Tuttavia, per gli USA, le YPG ed il PKK restano minacce al pari dell’IS. La ragione sta nel fatto che nonostante certi limiti, queste forze stanno dimostrando che la società può essere gestita dal popolo in un modo più democratico e potrebbe essere possibile mettere fine al capitalismo, allo Stato, al patriarcato ed al dominio di classe grazie alle lotte ed ai movimenti di massa. Ecco perché gli USA si rifiutano di fornire assistenza alle YPG ed al PKK. A riprova di ciò, gli USA e la Turchia hanno concesso ai combattenti dell’IS di attraversare liberamente il confine turco per attaccare il PKK e le YPG. Inoltre, la Turchia ha bloccato con la forza al confine tutti coloro, soprattutto Curdi, che volevano entrare per unirsi alla lotta contro l’IS, specialmente ora che Kobani è sotto minaccia. Aggiungiamo che ora gli USA sembrano intenzionati a spingere il KRG a lanciare un attacco contro il PKK e possibilmente contro le YPG, nonostante l’incombenza della minaccia dell’IS.

Conclusioni

E’ evidente che l’IS è una forza reazionaria che non offre nessuna speranza per un futuro migliore per il Medio Oriente. L’IS vuole instaurare una dittatura e si mostra del tutto intollerante verso chiunque dissenta dalla sua politica. Dalle scelte degli USA, si coglie altrettanto chiaramente che non gli importa granché della democrazia o delle atrocità commesse dall’IS. Gli USA non sono interessati a che ci sia un Medio Oriente pacificato, libero ed uguale, dal momento che la sola cosa che sanno offrire è ancora più miseria per la classe lavoratrice della regione. Per la classe lavoratrice del Medio Oriente, solo le politiche e le iniziative messe in atto dal PKK e dalle YPG offrono – al momento – qualche prospettiva di un futuro migliore. Ecco perché, perversamente, gli USA vogliono distruggerle.

Shawn Hattingh

Traduzione a cura di FdCA-Ufficio Relazioni Internazionali.”

Mi ripropongo, tempo permettendo, di pubblicare prossimamente altro materiale informativo che aiuti ad approfondire ulteriormente la questione.

Sulla protesta del “movimento dei forconi”.

Solo in questi ultimissimi giorni ho avuto tempo di leggere notizie e analisi sulle proteste messe in atto di recente un pò in tutta Italia dal cosiddetto movimento dei forconi. Il loro programma, o meglio quello che si legge sul sito del “movimento del popolo de i forconi“, è in sostanza una lista di riforme che hanno un senso solo se si riconosce come legittima e auspicabile l’esistenza del sistema capitalista con tutte le sue conseguenze (ad esempio la divisione in classi sociali), che si indirizzano contro quelle che vengono ritenute le “storture” di tale sistema (neoliberismo, delocalizzazioni, corruzione, clientelismo, scarsa mobilità sociale, eccessiva pressione fiscale …) e che risultano palesemente fallaci perchè mancano di risonoscere questi aspetti come intrinsechi al sistema capitalista stesso. A scendere in piazza nelle scorse settimane sono stati principalmente lavoratori autonomi e piccoli imprenditori impoveriti dalla crisi, spesso trascinandosi dietro la loro mentalità piccoloborghese col relativo strascico di razzismo, classismo, qualunquismo e patriottismo. Eppure, pur scegliendo i loro obiettivi in modo magari discutibile (perchè bloccare nel traffico i mezzi di trasporto di chi torna dal lavoro e non indire direttamente un bel blocco delle attività produttive?), pur avendo tra le loro fila elementi di destra o addirittura dichiaratamente neofascisti, pur cercando percorsi legalitari e appoggio da parte delle forze dell’ordine, i forconi non possono essere ignorati, né etichettati sbrigativamente come fascisti tout court. Chi accusa i piccoli imprenditori di aver evaso da sempre le tasse e di lamentarsi ora per l’eccessiva pressione fiscale dovrebbe interrogarsi, anarchici/che in primis, sulla legittimità stessa del concetto di tasse come imposizione di un contributo da parte dello Stato (vogliamo forse rileggere cosa dicevano sull’argomento i vari Proudhon, Warren o Tucker?), ma anche ricordare che al di là delle generalizzazioni è vero che le condizioni di vita di tanti esponenti della cosiddetta piccola borghesia spesso non si allontanano molto da quelle dei lavoratori dipendenti, né che quel tipo di mentalità reazionaria e per me ripugnante della quale parlavo poco sopra è tristemente diffusa anche tra tanti elementi di quelle classi sociali definite storicamente come proletariato e sottoproletariato. Sono tanti gli aspetti che accomunano queste classi sociali, non ultimo il fatto che le critiche al sistema, indirizzate solo ad alcuni dei suoi aspetti, siano mosse da chi non vuole abbattere tale sistema perchè ritenuto ingiusto, ma da persone che vengono escluse dal fittizio benessere da esso prodotto, quelli del “vorrei ma non posso”, che non detestano tanto i “padroni” quanto il fatto di non essere al loro posto: una conseguenza della mancanza di coscienza di classe, anche frutto dell’opera di molti di quelli che  lo scorso 9 Dicembre si sono ritrovati a protestare in piazza solo perchè scivolati più in basso nella scala sociale. Eppure, come tutti i movimenti di protesta, quello dei forconi non dovrebbe venir liquidato sbrigativamente, magari usando schemi e strumenti di analisi ormai superati, bensì seguito con attenzione. Finite le manifestazioni e i blocchi stradali il problema è ancora lì e con la rabbia di chi è sceso in piazza e continuerà a scendervi, anche se spesso con parole d’ordine molto diverse dalle nostre, bisogna fare i conti. Qual’è dunque il posto degli/lle anarchici/che in questo tipo di lotta, o meglio come rapportarsi nei confronti del malessere delle classi medie con l’acqua ormai alla gola, “proletarizzate”? In quanto persona “esterna” alle proteste, vivendo a troppi chilometri di distanza dai luoghi nelle quale esse si sono svolte e (probabilmente) continueranno a svolgersi, in questo frangente posso solo leggere ciò che avviene e farmi un’opinione, non certo dare consigli, piuttosto porre interrogativi. Di sicuro qui non sono tanto i metodi a dover essere radicalizzati, quanto i contenuti, il che è la cosa più lunga e difficile. Cercare altri luoghi e spazi di conflitto, altri soggetti partecipi? Ciò non esclude il fatto di doversi confrontare prima o poi, volenti o nolenti, con nuove componenti del disagio ormai diffuso ed esacerbato dalla crisi economica e con i loro discorsi. Confrontare e, chissà, magari anche scontrare: lo stringersi intorno all’appartenenza alla Nazione contro il potere delle banche e delle regie oscure aspirando ad una guida del Paese che sia trasparente ed incorruttibile non è solo ingenuo, ma anche pericoloso, vi ricorda qualcosa? In mezzo all’inconsapevolezza ed alla mancanza di chiarezza si può provare a inserire contenuti di critica radicale al sistema e costruire un percorso comune di lotta, pur rischiando di partire mezzi sconfitti vista la difficoltà dell’impresa, oppure lasciare tutto in mano a chi nella confusione ideologica ci sguazza?

Greed economy.

Alcuni giorni fa sono venuto con piacere a sapere dell’ultima operazione compiuta dagli hacktivisti di Anonymous Italia, che si sono schierati contro la costruzione di rigassificatori e la conseguente devastazione ambientale da essi provocata. I motivi del sabotaggio di alcuni siti internet legati alla costruzione dei rigassificatori sono ben spiegati nel comunicato pubblicato sul sito ufficiale di Anonymous Italia.


Nonostante i motivi di natura ambientale (e di conseguenza quelli legati alla salute ed alla sicurezza umana) siano -giustamente- posti in primo piano da chi si oppone alla costruzione dei rigassificatori, l’aspetto tra quelli elencati dagli hacktivisti di Anonymous che ha maggiormente attratto la mia attenzione è di natura economica. Cito:
Forte rischio economico: i costi di costruzione sono esosi, fino a 500 milioni di euro. Gran parte delle spese relative al progetto di rigassificazione è sostenuto dallo Stato il quale è intervenuto per la copertura di gran parte della spesa. Con la delibera 178/2005 (finalizzata ad aiutare la competizione), lo Stato ha incentivato la costruzione degli impianti di rigassificazione azzerando il rischio di impresa per le società che vogliono investire in tale ambito. In caso di mancato utilizzo dell’impianto, ad esempio per mancanza di GNL da acquistare sul mercato, o per eccesso di domanda, i gestori godrebbero comunque di un introito minimo: lo Stato interverrebbe prelevando i fondi dalle bollette degli utenti.” 

Ma come, lo Stato deve aiutare la competizione economica?!?! Ma allora dov’è la “mano invisibile”, dov’è la magica dote del capitalismo che si regola da se??? Domanda retorica, ovviamente. Così come è retorico chiedersi come mai, in una fase di crisi economica come quella attuale, lo Stato debba correre il rischio di far accollare ai contribuenti già tartassati gli eventuali costi di un’operazione economica potenzialmente fallimentare: basterebbe leggere alcuni documenti prodotti ad esempio dal movimento No TAV per capire cosa significhi concretamente il termine “socializzazione delle perdite”- un pò come giocare a poker coi soldi altrui mettendo in tasca il ricavato di un’eventuale vincita senza essere obbligati a restituire la somma giocata in partenza, anzi facendo pagare ad altri gli eventuali debiti contratti in caso di perdita. Ci si potrebbe anche chiedere cosa ne sia stato di tutti gli strombazzati discorsi retorici sulla green economy…oppure ci si potrebbe finalmente rendere conto che nel capitalismo l’unico verde che conta è quello di certe banconote. Greed, not green.

Catastroika.

“Catastroika- Privatisation Goes Public” è un documentario greco del 2012, realizzato da Aris Chatzistefanou e Katerina Kitidi, che tratta il tema delle privatizzazioni di servizi pubblici. Prodotto con un budget limitato, ha raggiunto milioni di persone grazie anche alla sua distribuzione su internet attraverso canali gratuiti. L’analisi del documentario mette in relazione crisi economica, ideologia neoliberista, autoritarismo e privatizzazioni, spiegando dinamiche e conseguenze di un processo tutt’ora in corso non solo in Grecia. Quella che potrebbe sembrare a prima vista una presa di posizione in favore del monopolio statale su determinati settori dell’economia si rivela essere (specialmente nella parte finale dell’opera) un’invito ad una maggiore democratizzazione dell’economia in chiave partecipatoria, concetto a mio parere valido e interessante, ma poco sviluppato in questa occasione dagli/lle autori/trici del documentario.  Nella versione che ho deciso di pubblicare qui, è possibile attivare i sottotitoli in diverse lingue selezionando quella preferita cliccando sulla prima icona che si trova in basso a destra nella schermata del video. Buona visione e, come sempre, se vi piace diffondete!