Es gibt kein Ende der geschichte, der Kampf geht weiter!

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Di solito per festeggiare occorre un buon motivo, almeno così suggerisce la logica e, se per il Primo Maggio di festa deve trattarsi, a gozzovigliare dovrebbero essere in pochi, cioè quelli che hanno fatto la festa ai lavoratori. Cosa abbiamo noi da festeggiare, il pareggio in bilancio sancito dalla Costituzione o l’abolizione dell’ articolo 18 oppure la media di un suicidio al giorno da parte di chi, in Italia come in altri Paesi, viene schiacciato dalla crisi economica e dalle risposte degli Stati e delle istituzioni transnazionali agli ordini del capitale? Se durante la seconda metà dell’ ‘800 si lottava per le otto ore di lavoro, si scioperava in massa, si resisteva alla violenza dello Stato messa in campo per difendere i privilegi della classe padronale, oggi il Primo Maggio si va ad ascoltare il comizio di un paio di burocrati concertativi prima del concerto di rito, lo stanco rito, senza più significato. Eppure il Primo Maggio è una ricorrenza dalle profonde radici anarchiche e ciò va ricordato con decisione anche oggi, sia nelle azioni di contrasto alle politiche di lacrime e sangue mese in atto per far pagare le conseguenze della crisi economica a chi produce realmente la ricchezza della quale pochi usufruiscono in modo abnorme e iniquo, sia nelle riflessioni sul reale significato del lavoro nella nostra società, sulla sua utilitá o inutilitá, sulla possibilitá di autogestione delle attività produttive da parte dei/lle produttori/trici stessi/e, sulla funzione delle tecnologie (potenzialmente emancipatoria o sempre e comunque funzionale al dominio ed allo sfruttamento?), sul significato globale delle lotte emancipatorie e sulle loro prospettive. Io mi auguro che sia questo ciò che faranno gli/le anarchici/che il Primo Maggio in tutto il mondo così come tutti i giorni: non festeggiare, ma analizzare, discutere, proporre, lottare, creare alternative!

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A queste mie parole aggiungo una riflessione di un altro blogger, che ricorda che la fine della storia (non solo quella raccontata dal brano musicale del quale lui parla nel suo articolo, ma anche e soprattutto la Storia con la esse maiuscola) possiamo ancora scriverla noi. Alla faccia di Fukuyama!

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