Argentina: crisi economica, lotte ed esperienze di autogestione.

Tre documentari sulla crisi economica che colpì l’Argentina alla fine degli anni ’90 del secolo scorso e sulle lotte dei ceti sociali vittime di tale crisi.

Diario del saccheggio, di Fernando E. Solanas, 2005. Narra le vicende della crisi economica in Argentina fino al Dicembre del 2001, data della caduta del governo di De La Rùa. Un vero e proprio atto di accusa nei confronti del genocidio sociale compiuto da politici, banche e multinazionali, supportato da una mole di informazioni rese però accessibili da un montaggio efficace e da una narrazione semplice e diretta. E, a proposito di “diretta”, a molti sembrerà di viverci dentro, a questo film: le analogie con molti aspetti  dell’attuale situazione italiana si sprecano.

La dignità degli ultimi, di Fernando E. Solanas, 2005. La prosecuzione ideale del documentario precedente (stavolta l’arco di tempo è dal 2001 al 2004), incentrato però maggiormente su storie personali di uomini e donne che hanno deciso di unirsi e resistere alla miseria, ai soprusi ed all’ingiustizia del potere. Toccante ma non stucchevole, a tratti poetico: le storie raccolte da Solanas hanno molto da insegnare e ridanno significato pieno a termini troppo spesso abusati e svuotati quali solidarietà, dignità, umanità e coraggio.

The Take- La Presa, di Avi Lewis (sceneggiatura di Naomi Klein), 2004. Il documentario è incentrato sull’occupazione delle fabbriche dismesse compiuta degli/lle ex operai/e rimasti disoccupati in seguito alla crisi economica ed alla fuga dei padroni. Estremamente formativo: quello che gli anarchici vanno ripetendo da sempre viene messo in pratica negli anni della crisi in Argentina da persone spinte dalla necessità e prive di preparazione teorica, che mettono in pratica principi quali autogestione, azione diretta, democrazia di base, mutuo appoggio, nonostante le difficoltà quotidiane e la reazione del capitale e dei suoi sgherri.

David Graeber, “Critica della democrazia occidentale”.

David Graeber, “Critica della democrazia occidentale. Nuovi movimenti, crisi dello Stato, democrazia diretta”, prefazione di Stefano Boni. Elèuthera, 2012.

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Una delle tesi centrali di questo breve saggio dell’antropologo statunitense David Graeber è che il sistema politico nel quale viviamo non sia realmente democratico. “Ha scoperto l’acqua calda!”, ho pensato nell’accingermi a leggere il libricino, curioso di scoprire quali fossero gli argomenti portati dall’autore a sostegno della sua tesi e cosa egli intendesse con il termine “democrazia”. Innanzitutto per Graeber i termini “anarchia” e “democrazia” sono sinonimi, interpretando quest’ultimo secondo la sua etimologia, “potere del popolo”, esercitato in modo egualitario attraverso processi decisionali collettivi e orizzontali. Un modello che poco o nulla ha a che vedere con la cosiddetta democrazia rappresentativa tanto sbandierata in Occidente, ma che nasce piuttosto tra le pieghe degli Stati e nonostante essi, in diversi tempi e luoghi. Le forme democratiche orizzontali ed autogestite delle quali parla Graeber si contrappongono alla presunta democrazia (tale solo nominalmente) sbandierata dal paradigma occidentalista, autoritaria e promotrice di diseguaglianze, impossibilitata a esistere senza uno Stato che detenga il monopolio della violenza. È proprio a causa della negazione sempre più evidente da parte del sistema dominante di forme reali di democrazia se queste forme vengono rivendicate da movimenti di critica radicale e lotta sociale – movimenti che Graeber affronta in questa sua opera purtroppo solo di sfuggita. In effetti “Critica della democrazia occidentale” è un libro fin troppo breve che richiede al lettore di approfondire altrove le tematiche trattate, ma sicuramente è un’ottima fonte di ispirazione, scritto con uno stile sempice ma capace di spiazzare per via degli argomenti sostenuti, un efficace approccio dal punto di vista antropologico ad un tema di vitale importanza sul quale, ora più che mai, è urgente riflettere senza i paraocchi imposti dalla propaganda del pensiero unico.

Incontro anarchico internazionale a St-Imier.

L’incontro della Prima Internazionale antiautoritaria svoltosi nella cittadina svizzera di St-Imier nel 1872 rappresentò un evento storico della massima importanza nella storia del movimento anarchico. Oggi, a 140 anni di distanza, diverse organizzazioni anarchiche hanno dato vita ad un nuovo congresso che si terrà sempre a St-Imier dall’8 al 12 Agosto 2012. Il proposito del congresso non è meramente commemorativo, nelle intenzioni degli organizzatori/trici si vuole stabilire un dialogo fra diverse realtà ed organizzazioni dell’ anarchismo sociale al fine di coordinare nel presente e nel futuro teorie e pratiche emancipatorie, ecologiste, federaliste ed autogestionarie.

A chiunque interessasse avere ulteriori informazioni sulle organizzazioni promotrici e partecipanti, sugli argomenti di discussione previsti e sulla logistica dell’evento consiglio di leggere le due circolari del comitato organizzatore dell’incontro, ma soprattutto di visitare il sito internet dedicato all’evento.

Es gibt kein Ende der geschichte, der Kampf geht weiter!

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Di solito per festeggiare occorre un buon motivo, almeno così suggerisce la logica e, se per il Primo Maggio di festa deve trattarsi, a gozzovigliare dovrebbero essere in pochi, cioè quelli che hanno fatto la festa ai lavoratori. Cosa abbiamo noi da festeggiare, il pareggio in bilancio sancito dalla Costituzione o l’abolizione dell’ articolo 18 oppure la media di un suicidio al giorno da parte di chi, in Italia come in altri Paesi, viene schiacciato dalla crisi economica e dalle risposte degli Stati e delle istituzioni transnazionali agli ordini del capitale? Se durante la seconda metà dell’ ‘800 si lottava per le otto ore di lavoro, si scioperava in massa, si resisteva alla violenza dello Stato messa in campo per difendere i privilegi della classe padronale, oggi il Primo Maggio si va ad ascoltare il comizio di un paio di burocrati concertativi prima del concerto di rito, lo stanco rito, senza più significato. Eppure il Primo Maggio è una ricorrenza dalle profonde radici anarchiche e ciò va ricordato con decisione anche oggi, sia nelle azioni di contrasto alle politiche di lacrime e sangue mese in atto per far pagare le conseguenze della crisi economica a chi produce realmente la ricchezza della quale pochi usufruiscono in modo abnorme e iniquo, sia nelle riflessioni sul reale significato del lavoro nella nostra società, sulla sua utilitá o inutilitá, sulla possibilitá di autogestione delle attività produttive da parte dei/lle produttori/trici stessi/e, sulla funzione delle tecnologie (potenzialmente emancipatoria o sempre e comunque funzionale al dominio ed allo sfruttamento?), sul significato globale delle lotte emancipatorie e sulle loro prospettive. Io mi auguro che sia questo ciò che faranno gli/le anarchici/che il Primo Maggio in tutto il mondo così come tutti i giorni: non festeggiare, ma analizzare, discutere, proporre, lottare, creare alternative!

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A queste mie parole aggiungo una riflessione di un altro blogger, che ricorda che la fine della storia (non solo quella raccontata dal brano musicale del quale lui parla nel suo articolo, ma anche e soprattutto la Storia con la esse maiuscola) possiamo ancora scriverla noi. Alla faccia di Fukuyama!

25 Aprile: troppo presto per festeggiare.

25 Aprile, festa della Liberazione d’Italia? Semmai “festa della resistenza”, visto e considerato che una vera liberazione non é mai avvenuta! Ma come, c’é qualcuno che pensa che il fascismo sia morto il 25 Aprile 1945? Spiegatemi allora da dove vengono la strage di Portella delle Ginestre, il massacro degli operai a Reggio Emilia nel 1960, gli studenti ed i lavoratori massacrati dai celerini ancora nei decenni successivi, investiti dalle camionette, uccisi da pallottole e lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo; di chi é la responsabilità della strategia della tensione e delle stragi di Stato, da Piazza Fontana in poi, chi ha messo in galera o ammazzato persone innocenti, chi ha dichiarato guerre “perché é un nostro dovere nei confronti dei nostri alleati internazionali, é una missione di pace/umanitaria”, chi ha fatto ( e in alcuni di questi casi fa tuttora ) strage di civili in Somalia, Serbia, Afghanistan, Iraq, Libia? Chi sono i pochi che decidono per tutti, che pur di seguire il corso della Storia impoveriscono e gettano nella precarietà milioni di persone? Io non vedo nessuna liberazione, così come non la videro quei/lle partigiani/e che rimasero in montagna anche dopo la fine della seconda guerra mondiale, che non accettarono il compromesso di una Costituzione tanto conciliante da non mettere in discussione i fondamenti dell’ingiustizia, dello sfruttamento e dell’autorità. Chi si arroga il diritto di mettere nello stesso calderone chiunque abbia partecipato alla resistenza o é un mistificatore oppure non conosce i fatti storici, ma nemmeno un pò: i “miei” partigiani non sono morti perché io potessi avere il diritto ( dovere, secondo qualche zelante difensore del totalitarismo di mercato in salsa parlamentarista ) di scegliere tra due o tre sfruttatori di partiti diversi andando a votare ogni cinque anni, non hanno combattuto contro l’invasione nazista per barattarla con l’invasione atlantista, non volevano cambiare il colore ad una dittatura nel nome di un ossimorico Stato socialista. I/le partigiani/e di cui parlo non si schierarono contro il fascismo quando ormai il vento aveva cambiato direzione, ma combatterono in Italia ed in esilio, braccati in Francia o schiacciati fra due fronti fascisti ( franchisti da una parte, stalinisti dall’altra ) durante la guerra civile spagnola, erano le stesse persone che avevano resistito al fascismo prima che questo salisse al potere, erano gli stessi che anche in galera o al confino o nei campi di concentramento continuavano a mantener salda la loro integritá, gli stessi che spesso venivano colpiti alle spalle dai falsi amici, nel Nord Italia come a Barcellona, nelle cittá occupate dagli invasori nazisti e dai repubblichini cosí come era già accaduto a Kronstadt o in Ucraina. La liberazione non é mai avvenuta, la resistenza non é mai finita: cambiano i tempi, le forme di lotta, il nome e il volto dei tiranni, ma non cambiano la necessità e la volontà di lottare. Questo é il miglior modo nel presente e nel futuro per ricordare chi combatté in passato, non per governare sugli altri, non per essere declamato nei discorsi retorici di qualche potente, non per venire strumentalizzato dai partiti, non per diventare cenere, ma per essere la fiamma della rivolta che é nostro dovere tenere accesa.
Loro vivono nella nostra lotta!

Angela Davis, “Aboliamo le prigioni?”

 

Angela Davis, “Aboliamo le Prigioni?” (Con un saggio di Guido Caldiron e Paolo Persichetti) , Minimum Fax 2009, ISBN 978-88-7521-201-8

“Angela Davis, la mitica militante degli anni Settanta, è oggi un’intellettuale di fama internazionale che ha focalizzato il suo impegno politico in una delle battaglie per i diritti civili più difficili: abolire il carcere. Un mondo senza prigioni è forse impensabile, anche per chi proclama il suo progressismo. Ma con lucidità scientifica, un’enorme mole di materiale documentario e un instancabile passione ideale, la Davis analizza il sistema «carcerario-industriale» americano – quello per cui due milioni e mezzo di persone sono detenute negli Stati Uniti – e mostra come questa democrazia modello regga le sue basi economiche su una forma di schiavismo morbido: donne abusate e farmacologizzate, manodopera a costo zero per le grandi corporation, neri e ispanici a cui vengono negate istruzione e assistenza sanitaria di base. Aboliamo le prigioni? è una piccola guida di resistenza, che a partire dalla battaglia contro il carcere tuona la sua voce contro tutte le forme di oppressione. E alla fine ci chiama direttamente in causa, per farci diventare consapevoli di come le nostre idee cambieranno veramente soltanto quando saranno cambiati i nostri comportamenti.” (Dalla quarta di copertina del libro).

Quest’ opera della Davis, composta da due scritti ( “Il carcere é obsoleto?” e l’intervista di Eduardo Mendeta “Per una democrazia dell’abolizione” ), tratta un tema complesso e di fondamentale importanza, analizzando il legame negli Stati Uniti tra la nascita delle carceri e la loro attuale esistenza e schiavitù, razzismo, controllo sociale e interessi delle corporations attraverso un linguaggio semplice ma non semplificativo, fornendo al/la lettore/trice un’analisi di rara lucidità sul fenomeno carcerario, sul falso mito della sicurezza e sulle politiche repressive sulle quali si basa la cosiddetta “democrazia”. Oltre i preconcetti ed i falsi miti, analisi storiche e dati alla mano, la Davis mette a nudo la realtà del razzismo, del sessismo, della tortura e delle violenze che sono parte imprescindibile del regime detentivo, chiarendo in modo inequivocabile come l’esistenza delle prigioni sia legata a precisi interessi e politiche del sistema dominante, al concetto di esclusione, all’imperialismo. A conclusione del libro un breve saggio di Guido Caldiron e Paolo Persichetti analizza l’attuale situazione europea e l’origine delle tendenze reazionarie e populiste della “tolleranza zero”  dal punto di vista sociologico e politico.

-Vedi anche: articolo pubblicato sul blog “Attualizzando” da enrico76.

Ricordando Vittorio Arrigoni.

Io non credo nei confini, nelle barriere, nelle bandiere. Credo che apparteniamo tutti, indipendentemente dalle latitudini e dalle longitudini, alla stessa famiglia, che è la famiglia umana“.

Vittorio Arrigoni può essere ricordato in tanti modi. Su di lui possono venir scritte poesie, articoli, canzoni, si possono far video, opere pittoriche, magari anche monumenti. Per quanto mi riguarda, il modo migliore per ricordarlo, per ricordare la sua vita, non la sua morte, è continuare ad impegnarsi per far conoscere la verità su ciò che subisce la popolazione palestinese a Gaza (e non solo), solidarizzando con gli oppressi, aiutando come si può pur sapendo di non star facendo abbastanza, ma soprattutto continuando a sentire la sofferenza di queste persone come se fosse la nostra- una frase che sembrerà insignificante a chi vive tranquillo e intontito nel proprio piccolo mondo, ma che per me vuol dire tutto.

Per continuare a controinformare, aprendo una breccia nel muro di silenzio innalzato dai complici delle umiliazioni, delle discriminazioni, delle violenze, della negazione di una vita dignitosa perpetrate quotidianamente con un chiaro progetto politico dallo Stato di Israele contro la popolazione palestinese, contro il terrore usato contro chiunque si opponga a tale situazione: restiamo umani, non restiamo in silenzio.

Quelli che seguono sono alcuni documentari informativi che affrontano temi quali le condizioni di vita dei palestinesi nei territori occupati, la repressione e la guerra contro i civili condotta dallo Stato israeliano, ma anche le lotte contro l’oppressione portate avanti anche da cittadini/e israeliani/e che rifiutano di essere complici di tali ingiustizie e atrocitá:

-“Good times. Il muro della vergogna sionista“;

-“Only for one of my two eyes” (sottotitolato in italiano);

-“Jenin, Jenin” (sottotitolato in italiano);

-“Gaza risponde a Roberto Saviano” e “Israele risponde a Roberto Saviano“;

“Shachaf Polakow- Anarchists Against The Wall” (english language).

 

Per quelli che vorrebbero che noi anarchici appartenessimo al passato.

Non ho visto il documentario della RAI del quale parla Michele Fabiani nel suo articolo pubblicato per Anarchaos, ma mi rendo ben conto di quale sia uno dei tipici approcci da parte dei nostri detrattori nel trattare con le nostre idee, le nostre pratiche, il nostro passato ed il nostro presente. Da un lato c’è chi ci diffama costruendo l’immagine distorta o spesso completamente inventata dei teppisti o dei terroristi che vogliono il caos e non hanno nulla da proporre: nel creare l’immagine degli “anarchici brutti e cattivi” si ha gioco facile, centinaia di anni di indottrinamento delle masse e pedissequi sforzi per tentare di imbottogliare in spazi sempre più angusti il libero pensiero individuale e la coscienza di classe degli sfruttati hanno dato i loro frutti. Dall’altro lato vi è la tendenza, da parte di alcuni falsi simpatizzanti dell’anarchia, a guardare alle nostre idee come se fossero qualcosa di “bello ma irrealizzabile”, il che è vero soprattutto per chi queste nostre idee non ha mai provato nemmeno per un momento a metterle in pratica o addirittura solo a considerarle come fattibili su un piano razionale e senza pregiudizi, ed a considerare il nostro passato storico come un cimelio dei tempi andati, buono per mausolei polverosi e album di vecchie foto sbiadite, e non come una realtà che continua nel presente e si affaccia al futuro. Non saprei dire quale di questi due approcci sia quello che mi irrita di più, ma forse la falsa accondiscendenza, l’atteggiamento di chi di fronte ti sorride e finge di capirti ma in realtà ti tratta come un idiota, un fenomeno da baraccone è addirittura peggiore di quello di chi ti attacca magari in modo vigliacco e sleale ma perlomeno senza nascondere di essere un tuo nemico. Una cosa comunque é certa: chi cerca gli anarchici e le anarchiche non li troverà nei libri di storia o nei documentari fatti da chi siede da troppo tempo e s´è perfino dimenticato di come si stia in piedi, ma nelle strade, nelle piazze, negli spazi occupati, nelle scuole libertarie, dietro le barricate; troverà le nostre idee in qualsiasi lotta contro dogmi, dominio, sfruttamento ed  ingiustizie, in qualsiasi battaglia e pratica emancipatoria dove i principi di autogestione, solidarietà, azione diretta ed antiautoritarismo vengono messi in pratica da persone che spesso non si dichiarano anarchiche e che addirittura nemmeno sanno esattamente in cosa consistano le idee anarchiche, ma che in effetti stanno realizzando quella che per alcuni è solo un’utopia del passato buona per telespettatori addomesticati.

Qui l’articolo di Michele Fabiani sul documentario della RAI “Quando l’anarchia verrà”.

L’eterno conflitto.

Adbusting "playdate Iran"

Si stanno preparando ad una nuova guerra. Ci stanno preparando ad una nuova guerra. Le armi come sempre ci sono, le strategie militari pure, manca solo il consenso. O Forse c’é giá. L’ Iran é ormai il chiodo fisso delle diverse amministrazioni USA susseguitesi dal 1979 ad oggi: l’Iraq e l’Afghanistan sono giá sul piatto, manca solo l’altro Paese strategico sfuggito al controllo occidentale con la caduta dello sciá. Ed ecco che i massmedia utili ai progetti di regime ripropongono il solito vecchio gioco della creazione di un nemico, giunto al culmine con la patetica e menzognera campagna per la difesa della vita di Sakineh, presentata al pubblico come un’adultera che rischiava la lapidazione in uno Stato in cui regna la barbarie, in realtá condannata per l’omicidio del marito e fatta martire in occidente per gli squallidi obiettivi di uno Stato, gli USA, nel quale nel silenzio piú assordante dei media veniva giustiziata un’altra donna, Teresa Lewis, ritardata mentale accusata di aver ucciso il marito. Due donne, due condanne a morte, due Stati: la differenza sta nel fatto che noi ci troviamo nella sfera di influenza di uno di questi due Stati, che vuole farci apparire la propria barbarie come giustificabile mentre usa la barbarie altrui come strumento per preparare psicologicamente le masse occidentali ad un nuovo conflitto militare. Si manipolano i fatti a proprio piacimento o si inventano di sana pianta storie inverosimili, come quella, simile ad una trama da film hollywoodiano, che ci racconta di narcotrafficanti nordamericani che avrebbero acquistato armi dall’Iran, mentre l’opinione pubblica farebbe bene a ricordare una storia vera di armi vendute dagli USA all’Iran per finanziare bande di massacratori di civili nicaraguegni: il cosidetto Irangate. Ma che importa in fondo dei diritti umani quando questi vengono violati dagli USA o dai suoi alleati? I libici meritano di venire “aiutati” con un’intervento militare ai danni di quello che fino al giorno prima era un prezioso alleato, in Barhein le truppe saudite possono impunemente far strage di civili disarmati senza che nessuna potenza occidentale muova un dito: d’altra parte non si possono perdere i vantaggiosi contratti di multinazionali petrolifere quali la British Petroleum per la trivellazione al largo delle coste libiche, cosí come non si puó permettere che gli abitanti di un Paese strategico e saldamente nelle mani degli alleati degli USA come il Barhein insorgano per un qualsiasi motivo, fosse pure per chiedere il rispetto di quei diritti umani che servono ancora una volta da paravento per preparare l’opinione pubblica occidentale ad una nuova guerra, e cioé alla forma suprema di violazione di qualsiasi diritto umano.