Iniziativa sul caso di Giuseppe Uva al Kinesis di Tradate (Varese).

Fonte: Kinesis Tradate.

neisecoli_locandina

” VENERDÌ 18 GENNAIO 2013 ore 20.30
al KINESIS via carducci 3 TRADATE
proiezione gratuita del documentario
NEI SECOLI FEDELE. Il caso di Giuseppe Uva
dopo la proiezione interverrà Lucia Uva, sorella di Giuseppe

La notte del 14 giugno 2008 Giuseppe Uva viene fermato dai carabinieri Dal Bosco e Righetto di Varese e portato nella caserma di Via Saffi, insieme al suo amico Alberto (sono presenti anche degli agenti di polizia). Ed è proprio Alberto a richiedere i primi soccorsi al 118, quando sente il suo amico gridare «Ahi! Ahi! Basta!», ma l’operatore all’altro capo del telefono, dopo averlo rassicurato «Va bene, adesso mando l’ambulanza», chiama in caserma e si accorda coi carabinieri per non inviare alcun aiuto «Sono due ubriachi, ora gli togliamo il cellulare». Saranno poi gli stessi carabinieri, poche ore dopo, a chiamare una guardia medica, che richiederà all’Ospedale di Circolo di Varese di effettuare un T.S.O. (Trattamento Sanitario Obbligatorio). Il corpo di Giuseppe è pieno di lividi, il suo naso è rotto, i suoi testicoli sono blu, la sua pelle è segnata da alcune bruciature di sigaretta, dal suo ano esce del sangue che forma una grossa macchia sui pantaloni, ma non viene curato per le lesioni e niente di tutto ciò viene trascritto sui documenti del ricovero. Gli vengono però somministrati dei tranquillanti. Egli inoltre racconta alla psichiatra di essere stato brutalmente pestato in caserma: ma da parte dell’Ospedale non parte nessuna denuncia. La stessa psichiatra aspetterà ben tre anni e mezzo per raccontare queste tragiche parole di Giuseppe, probabilmente le sue ultime. Tutti fingono di non vedere, di non sapere. Tutti fingono che tutto ciò sia normale. Anche quando Beppe, dopo poche ore, muore. E infatti, nonostante il suo corpo presenti evidenti segni di violenza la magistratura sceglie di indagare solo un paio di medici, attribuendo la morte di Uva ad una errata somministrazione di farmaci, e non a quanto avvenuto in precedenza in caserma. Ma le perizie smentiscono questa ipotesi: Giuseppe non è morto a causa dei farmaci, che in nessun caso potevano ucciderlo; le cause della sua morte sono invece da ricercarsi in un mix di fattori, fra cui le misure di contenzione ed i traumi da corpi contundenti che ha subito. Nonostante questo, ad oggi nessun carabiniere o poliziotto è indagato per quanto accaduto e l’unico testimone presente quella notte non è mai stato sentito dal giudice. La verità su quanto accaduto, è ormai sotto gli occhi di tutti. Carabinieri, Polizia di Stato, Magistratura, 118, Pronto Soccorso, Reparto di Psichiatria: la sintonia con cui hanno agito o lasciato agire è il risultato di comportamenti ed abitudini a lungo tramandate. Le responsabilità per la morte di Giuseppe non possono essere ricondotte al singolo gesto, al singolo uomo, al singolo momento. Esse piuttosto perdurano nel riprodursi continuo di gesti di dominio e sottomissione. La violenza, di tutti gli sbirri di tutto il mondo, è resa possibile solo dal collaborazionismo, dall’indifferenza, e dal silenzio di tutti quegli altri che nella loro complicità si fanno un po’ sbirri anch’essi. Ma aldilà di ogni democratico tribunale (o divino, o politico) cui non chiediamo giustizia, crediamo che l’assassinio di Giuseppe ci riguardi tutti. Così come la storia antica e comune della violenza di coloro che si sono resi forti grazie alla collaborazione di alcuni fra i presunti deboli. Così come la comune necessità di riscossa contro gli oppressori e i loro sgherri. Adesso.

NEI SECOLI FEDELE. Il caso di Giuseppe Uva è un documentario ideato da Adriano Chiarelli (già autore del libro Malapolizia) per la regia di Francesco Menghini. Ricostruisce le ultime ore di vita di Giuseppe Uva, la battaglia per la verità portata avanti dalla sorella Lucia e la conseguente vicenda giudiziaria. Inoltre, attraverso le voci dei suoi amici e parenti, restituisce la figura di Beppe al suo ambiente, ai suoi luoghi, alle sue abitudini, alla sua dignità continuamente negata dalle istituzioni dopo la sua morte. ”

Grilli parlanti e specchietti per le allodole.

Occuparmi di fatti e misfatti legati ai diversi partiti politici italiani o esteri normalmente non m’interessa, anche se su tali strutture ci sarebbe molto e ben poco di buono da scrivere. Il fatto è che ritengo i partiti appendici del sistema economico, politico e sociale dominante, perciò preferisco criticare direttamente il sistema che li genera e che essi alimentano, così come preferisco, anche se ancora non l’ho fatto in modo approfondito su questo blog (ma mi riprometto di rimediare al più presto), sottolineare il fatto che la democrazia rappresentativa è un ossimoro in quanto democrazia reale non è, pertanto votare significa prendere in giro se stessi, illudersi e fare il gioco di chi ci domina non solo con la violenza nuda e cruda, ma anche e soprattutto con forme di condizionamento che mirano a mantenerci schiavi servili ed anestetizzati che non capiscono quanto sia indispensabile agire in prima persona senza deleghe per lottare contro ogni forma di dominio e sfruttamento. Mi rendo conto che è difficile per la maggior parte delle persone realizzare tutto ciò, mentre è infinitamente più semplice riporre fiducia in chi promette di risolvere i problemi che ci affliggono in cambio della delega ad agire in nostro nome, dicendoci magari che anche noi parteciperemo alla gestione della cosa pubblica una volta vinte le elezioni- una balla vecchia come il mondo, ma a quanto pare ancora efficace, specialmente se enunciata da personaggi carismatici, buoni oratori capaci di puntare il dito su categorie ritenute “colpevoli” dei problemi del Paese da una parte sostanziosa della popolazione proponendo, anche se in modo confuso, soluzioni che appaiono realistiche suonando al tempo stesso innovative. Ma tra tutti questi personaggi perchè ho deciso in questo post di parlare proprio di Beppe Grillo, fondatore del “MoVimento 5 Stelle”? Proprio perchè in lui e nel suo movimento molte persone sfiduciate dalla classe politica, nauseate dalla corruzione e dal malaffare e stufe che le proprie esigenze vengano ignorate hanno deciso ingenuamente di riporre la propria fiducia. Grillo è stato abile nel raccogliere consensi in pratica sparando sulla croce rossa, come si usa dire, cioè attaccando innanzitutto la “casta” dei politici, ma dimenticando che di “caste” ce ne sono tante altre, ben più importanti, dimenticando ad esempio che chi governa in parlamento lo fa per conto di chi detiene il potere economico; ha giustamente criticato la corruzione ed il malaffare, senza però dire che questi fenomeni sono intimamente legati al concetto stesso di potere, che di per sé è un abuso da parte di chi lo esercita nei confronti di chi lo subisce; ha fatto del giustizialismo e della legalità uno dei suoi cavalli di battaglia piuttosto che interrogarsi seriamente sulle origini del malessere sociale dal quale nascono comportamenti devianti, ma anche sui concetti stessi di comportamento deviante, legge, punizione; ha gridato allo scandalo di fronte ai numerosi casi saliti agli onori mediatici di cittadini morti nelle mani della polizia ma non ha saputo trattenersi dal fare battute che rivelano la sua vera natura forcaiola.

In tempo di crisi e non solo, sono spesso gli immigrati ad esser visti come causa di tutti i problemi: poteva esimersi il comico genovese dal cavalcare anche questa tigre? Certo che no, infatti non risparmia prese di posizione nei confronti dei tanto detestati rom, né fa sconti a quello che lui definisce “buonismo” nei confronti degli immigrati scatenando feroci polemiche all’interno del suo stesso movimento, ignorando che le vere cause dei fenomeni migratori di massa sono solitamente legate alla predazione di molti Paesi del “terzo mondo” da parte dei potentati economici dei Paesi “ricchi”: va di moda voler negare la libertà di circolazione degli individui in un’epoca di libera circolazione delle merci, specialmente se si tratta di individui che potrebbero minare alla radice il nostro stile di vita ancor più che la nostra cultura, non importa se il nostro stile di vita si basa sulla loro miseria. Le dichiarazioni inquietanti di esponenti del M5S su immigrazione e cittadinanza agli immigrati si uniscono ad altri atteggiamenti per nulla democratici all’interno del movimento stesso e a prese di posizione difensive nei confronti di movimenti di estrema destra, ma ciò a mio parere non basta di certo a paragonare il M5S al partito neonazista greco Alba Dorata. Rimane però l’impressione di un movimento animato da istanze in molti casi contrapposte, con un programma vago ed una volontá di controllo assoluto, il che ricorda in qualche modo -fermo restando le differenze- un certo movimento nato in Italia nel 1919, il cui fondatore affermava di potersi permettere, secondo le circostanze, d’essere repubblicano o monarchico, anticlericale o clericale, e via dicendo… Accusare di populismo chi ha simili atteggiamenti non mi pare una calunnia, anche se ormai l’accusa di populismo è abusata e viene rivolta praticamente a chiunque presti orecchio a quella che genericamente viene definita “volontà popolare”. Si deve comunque prendere atto che le dichiarazioni e prese di posizione delle quali ho parlato sopra meriterebbero un’attenta riflessione da parte di chi, con precoce entusiasmo, saluta la nascita di partiti o movimenti apparentemente innovatori, portatori magari di istanze in parte valide (si pensi anche alla presa di posizione di Grillo contro TAV, termovalorizzatori, a favore delle energie rinnovabili…), ignorando però ogni critica per quanto costruttiva alle proprie idee ed al proprio operato e dimenticando che, alla fin fine, la contraddizione più grande è proprio quella di chi a parole attacca una “casta” ma ambisce, presentandosi alle elezioni, a farne in qualche modo parte, grazie anche al seguito di ingenui che non hanno ancora imparato a rifiutare qualsiasi condottiero e capo smettendola finalmente di comportarsi come una lunga fila di zeri in trepidante allesa dell’uno che si porrà alla loro guida.

– Conterò poco, è vero:
– diceva l’Uno ar Zero –
ma tu che vali? Gnente: propio gnente.
Sia ne l’azzione come ner pensiero
rimani un coso voto e inconcrudente.
lo, invece, se me metto a capofila
de cinque zeri tale e quale a te,
lo sai quanto divento? Centomila.
È questione de nummeri. A un dipresso
è quello che succede ar dittatore
che cresce de potenza e de valore
più so’ li zeri che je vanno appresso.”

(Nummeri, poesia di Trilussa- 1944).

Vola, Carrero Blanco, vola!

C’é chi dice sia stato il primo astronauta spagnolo a salire in orbita, chi lo ricorda come l’atleta che stabilì il record mondiale tuttora imbattuto di salto in alto con l’auto, chi invece ne parla come colui che, stanco di fare l’ammiraglio della marina, si improvvisò aviatore in maniera oltremodo insolita e rocambolesca. A questo punto i/le lettori/trici più attenti e preparati avranno giá capito di chi sto parlando.

A chi pensasse che quanto ho scritto sopra sia crudele o perlomeno di cattivo gusto di fronte alla morte improvvisa e violenta di un essere umano, vorrei ricordare (o raccontare per la prima volta) un paio di cose. Luis Carrero Blanco, ucciso in un attentato dell’ETA il 20 Dicembre 1973 a Madrid, fu tra quegli ufficiali dell’esercito che nel 1934 repressero nel sangue la rivolta dei minatori delle Asturie, gli stessi ufficiali che nel ’36, Francisco Franco in testa, si sollevarono contro la Repubblica Spagnola. Seguace e ammiratore indefesso del dittatore Franco, Carrero Blanco fu uno dei suoi uomini più fedeli, quello che, al culmine di una lunga carriera di boia e persecutore (si dice che assistesse personalmente alle torture inflitte ai detenuti politici durante gli interrogatori), venne nominato dall’ormai anziano caudillo come suo successore, l’unico in grado di mantenere insieme le diverse componenti del franchismo, l’unico capace di dare continuità alla dittatura. Ma ecco che un evento inaspettato, seppure non pone subito fine al fascismo in Spagna, almeno ne fa tremare le fondamenta, che non reggeranno ancora a lungo. Il 20 Dicembre 1973 è un giorno difficile da dimenticare per i/le tanti/e che in Spagna hanno perso i propri cari per mano della repressione governativa, per chi è in galera, per gli operai e gli studenti che organizzavano scioperi e manifestazioni allora proibite e punite in modo durissimo, per quelli costretti alla clandestinità, un giorno nel quale tutte queste persone esultarono, insieme a moltissime altre in giro per il mondo, nel sapere che l’ammiraglio aveva tirato le cuoia.

Sull’ETA ci sarebbe tanto da dire. Non si dovrebbe dimenticare che L’ETA che combattè il franchismo non è necessariamente la stessa che continuò a piazzare autobombe ed ammazzare consiglieri comunali negli anni successivi alla dittatura, considerata anche la scissione che l’organizzazione subì nell’Ottobre del ’74 che vide l’abbandono della lotta armata da parte di molti etarra. Va ricordato che i baschi, senza nulla togliere agli altri abitanti dello Stato chiamato Spagna, sono quelli che durante la guerra civile ed il franchismo hanno sofferto di più: ma ciò giustifica l’uso del terrorismo da parte di alcuni di essi? E dove inizia e dove finisce la pratica terroristica? L’ETA ha certamente compiuto nella sua storia azioni ingiustificabili ed imperdonabili, ma se un gruppo armato piazza una bomba in un centro commerciale, telefona più volte per avvisare del pericolo ma ciò viene ignorato dalle autoritá che, consapevolmente, non evitano la morte di 21 persone ed il ferimento di altre 45, chi dobbiamo chiamare terrorista: solo chi ha piazzato la bomba come gesto dimostrativo, avvisando, oppure anche e soprattutto chi l’ha lasciata esplodere per calcolo politico? Ma soprattutto, si dovrebbe definire terrorismo anche un attentato mirato contro il vice di un dittatore? Ognuno potrà rispondere a queste domande secondo le proprie idee e la propria etica, senza però dimenticare le circostanze e le cause di certi gesti. Per quanto mi riguarda, quando penso al 20 Dicembre di 39 anni fa mi vengono prima di tutto in mente la cittá di Guernica rasa al suolo dai bombardamenti del 1937, le fucilazioni di prigionieri e prigioniere antifascisti che continuavano ancora 10 anni dopo la fine della guerra civile, le condanne a morte eseguite con la garrota, i figli dei rivoluzionari rapiti e adottati da famiglie di provata fede reazionaria e ancora l’ottusità, l’obbedienza, la vigliaccheria, l’indifferenza, i baciapile, il silenzio, squarciato infine da una tremenda esplosione. Un atto liberatorio, in fondo, in un tempo ed in un luogo che non offrivano alternative.

“Remember, remember, the days of December…”

Nel ricordare la morte del giovanissimo Alexis Grigoropoulos, ammazzato a sangue freddo quattro anni fa da due sbirri nel quartiere ateniese di Exarchia, e gli eventi che ne conseguirono, un’insurrezione popolare che durò fino alla vigilia di Natale del 2008, avrei voluto scrivere qualcosa di mio pugno. Mi sarebbe piacuito parlare di un libro, “We are an image from the future”, che raccoglie comunicati, analisi, testimonianze degli eventi successivi alla morte di Alexis. Avrei magari ricordato per l’ennesima volta, visto che il calendario è beffardo e la Storia è costellata di episodi in qualche modo simili, che lo Stato uccide, in qualsiasi luogo e tempo, spesso con motivi e scopi ben precisi, a volte solo perchè ciò è il risultato del monopolio della violenza giustificato dalla presunta incapacitá dell’essere umano di autogestire liberamente i rapporti sociali ed economici secondo il libero accordo tra individui, senza coercizione. Avrei detto tutto ciò in modo più esteso di quanto non abbia fatto ora, ma in fondo a che serve quando la realtá dei fatti è di fronte agli occhi di tutti noi e richiede solo uno sforzo collettivo per essere capita? La gente ha semplicemente paura di riconoscerlo, riconoscere che siamo stati ammaestrati, divisi  in categorie fittizie ed aizzati l’uno contro l’altro, controllati e ingabbiati secolo dopo secolo ed ora abbiamo paura di perdere le nostre certezze, le nostre abitudini, la nostra sicurezza, la prevedibilitá di eventi basati su dinamiche decise da altri, abbiamo paura di saltare nel vuoto creando un mondo diverso da quello nel quale viviamo, senza affidarci a leaders o messia che promettono falsi cambiamenti solo per lasciar tutto come sempre, in un circolo vizioso che non è altro che l’adeguamento dello sfruttamento e dell’oppressione secondo le necessitá del momento. Finchè continueremo ad avere paura di cambiare realmente e radicalmente le cose il futuro sarà sempre e solo una proiezione sbiadita di ciò che potrebbe essere stato se… e non il prodotto delle nostre azioni consapevoli.

Ancora qualcosa a riguardo:

“Siamo Un’Immagine Dal Futuro”.

L’altra Israele.

Nel momento in cui scrivo vige finalmente la tregua, ma le vittime dell’aggressione israeliana nella striscia di Gaza, giunta al suo settimo giorno, sono salite a 164: persone con nomi e cognomi, con le loro vite alle quali è stata posta fine per mano del governo e delle strutture militari di uno Stato che non vuol sentire ragioni e va avanti nel tempo con la sua politica fatta di massacri, razzismo, prepotenza, una politica che nuoce in primo luogo ai palestinesi ma anche, collateralmente, agli stessi cittadini israeliani. Questi ultimi si trovano a dover vivere sotto la costante minaccia di attentati compiuti da persone disperate, alle quali i governi israeliani succedutisi negli anni hanno tolto sempre piú la speranza di una vita dignitosa e di una soluzione equa e pacifica del conflitto. Il terrorismo dello Stato d’Israele non viene perciò appoggiato da tutti/e gli/le israeliani/e: chi si rifiuta di obbedire all’autoritá e di partecipare ai soprusi, alla negazione di diritti elementari ed ai massacri nei confronti della popolazione di Gaza fa parte per ora di una minoranza di persone consapevoli e coraggiose che si spera diventi col tempo sempre più numerosa. Quelle che seguono sono solo alcune tra le tante storie di cittadini/e israeliani/e che hanno voltato le spalle al nazionalismo, al militarismo, al lavaggio del cervello imposto dai dogmi religiosi, all’obbedienza cieca, in nome di altri valori.

Natan Blanc, diciannovenne di Haifa, preferisce la prigione all’arruolamento nell’esercito;

Manifestazione di attivisti/e israeliani nel centro di Tel-Aviv contro l’attacco a Gaza, 15 Novembre;

Sbirri impediscono manifestazione di attivisti/e israeliani a Gerusalemme contro l’attacco a Gaza, 15 Novembre;

Obiettori/trici di coscienza israeliani;

Noam Gur and Alon Gurman refuses to serve in the Israeli military;

Refuseniks and Israeli Soldiers speaks out;

La storia di Jonathan Ben Artzi;

Lettera di un obiettore di coscienza israeliano;

Anarchici contro il muro.

Timur Kacharava, sette anni fa.

Timur Kacharava era il chitarrista della band hardcore russa Sandinista!, anarchico e di conseguenza antifascista, impegnato in numerose attivitá politiche nella sua comunitá. Era proprio da un’azione del gruppo Food Not Bombs di San Pietroburgo, cittá nella quale viveva e studiava alla facoltá di filosofia, che Timur stava tornando la sera del 13 Novembre 2005, quando venne aggredito ed accoltellato insieme al suo amico e bassista della band da un gruppo di circa 12 neonazisti. Il bassista, Maksim Zgibaj, sopravviverà all’assalto nonostante diverse ferite gravi, Timur no. Timur, vent’anni, morirá sul luogo dell’aggressione. Il fatto che sette degli aggressori siano stati in seguito processati e condannati (uno solo, ritenuto materialmente responsabile dell’omicidio, a 12 anni di carcere, gli altri a pene lievi per complicitá) non è particolarmente consolante, poichè nulla riporterà in vita un compagno ucciso e perchè le condanne dei tribunali di uno Stato, quello russo, che fa scudo ai neonazisti e li usa in modo ipocrita e strumentale per mantenere un apparato autoritario e per fomentare le solite guerre tra poveri, sono solo un modo per tranquillizzare l’opinione pubblica di fronte ad un fenomeno che non si vuole combattere alla radice. La verità è che, al contrario di quanto stabilito dal processo, quella nella quale morì Timur Kacharava fu un’aggressione pianificata nel tempo e meticolosamente organizzata da parte di personaggi i cui camerat(t)i sfilano ancora oggi per le strade russe protetti dalla polizia e aggrediscono ogni anno centinaia di immigrati, antifascisti, avvocati, giornalisti che indagano sull’estremismo di destra, omosessuali e attivisti per i diritti umani, spesso con esito mortale. La verità, nuda e cruda, è che tutto questo non si esaurirà spontaneamente, si deve fare qualcosa per fermarlo. E, come diceva Timur, “Chi se non noi, quando se non ora?”.

La band Sandinista! si è sciolta a seguito dell’omicidio di Timur, dopo aver pubblicato un solo album.

Anti-Flag, “The General Strike”.

Band: Anti-Flag
Album: The General Strike
Year: 2012

Tracklist:

1. Controlled Opposition = 0:00
2. The Neoliberal Anthem = 0:21
3. 1915 = 3:39
4. This is the New Sound = 6:31
5. Bullshit Opportunist = 9:17
6. The Ranks of the Masses Rising =11:52
7. Turn a Blind Eye = 14:21
8. Broken Bones =15:40
9. I Don´t Wanna =18:44
10. Nothing Recedes Like Progress = 21:10
11.Resist = 23:28
12. The Ghost of Alexandria = 24:29

Innanzitutto grazie all’utente che ha postato su YT quest’album. Chi volesse leggere/scaricare i testi, cosa che consiglio vivamente, li può trovare su questa pagina web. La mia opinione su quest’album può essere condensata in 10 lettere: entusiasmo assoluto per la musica, ancor più per i testi. Per quanto riguarda la solita vecchia polemica sul fatto che una band che si dichiara anarchica o comunque “contro il sistema” non dovrebbe mai firmare un contratto con una major discografica, non ho un’opinione netta o definitiva sulla questione, anche se tendenzialmente sono disposto ad accettare la spiegazione fornita da Justin Sane, chitarrista e voce della band, in un’intervista del 2006 al quotidiano inglese The Guardian:

“We’ve been approached by the major labels over the past seven or eight years but we thought we were having an impact where we were. They were never willing to give us complete control. This time they were willing to give us complete control over what we record, the artwork, who we tour with. We won’t be censored. If there was ever a time to take a chance to be heard on a mass scale then this is the time. I feel like we’ve been a voice in the wilderness for too long.”
Che poi, il loro rapporto con una major (RCA Records) è durato solo un paio d’anni e i soldi guadagnati dall’impennata di vendite dei due album pubblicati con tale etichetta sono serviti agli Anti-Flag per fondare un’associazione no-profit (Military Free Zone) contro la propaganda militarista nelle scuole statunitensi tesa al reclutamento nell’esercito degli studenti.

A Malatesta.

Sono passati ottant’anni dalla morte di Errico Malatesta, colui che viene ritenuto il più noto ed influente anarchico italiano degli ultimi due secoli. Malatesta morì durante il regime fascista, quasi ottantenne, chiuso nella sua abitazione romana e sorvegliato a vista da alcune guardie. Aveva lottato instancabilmente durante la sua vita, diffondendo il pensiero anarchico e l’azione sovversiva per mezzo mondo, partecipando a insurrezioni, scioperi, comizi ed altre lotte sociali dall’Italia all’Argentina, dalla Svizzera alla Spagna, dall’Inghilterra all’Egitto, finendo più volte sotto processo e perfino in galera. Il suo modo d’intendere l’anarchia non era dogmatico nè ingabbiato in schematismi di sorta e rifletteva la sua volontà di mantenere unite le diverse componenti del variegato movimento: pur essendo tendenzialmente comunista libertario ed organizzatore, riteneva che le differenze fra individualisti ed “anarchici sociali” fossero di scarsa importanza e che l’unica differenza rilevante fosse quella fra anarchici e non-anarchici, concezione che si rifletteva nel suo definirsi “anarchico senza aggettivi”.

Quando iniziai ad avvicinarmi alle idee anarchiche, o per meglio dire quando mi resi conto di essere anarchico, tra gli scritti che lessi e che più mi rimasero impressi vi furono proprio quelli di Malatesta, non solo per la loro chiarezza e per il fatto che molti dei concetti da lui espressi li avevo già formulati nella sostanza per conto mio senza sapere che qualcun’altro li avesse elaborati settanta o ottant’anni prima, ma anche e soprattutto per il senso di umanità e di onestà intellettuale che da tali scritti traspariva. Coerente e deciso nel sostenere le proprie posizioni, accettava di buon grado il confronto con altri compagni anche quando questi portavano avanti posizioni diverse dalle sue con toni molto accesi e non censurava le loro opinioni.  Persona fondamentalmente amante della pace e che sognava una società libera e nonviolenta, comprendeva però la tragica necessità di usare la violenza per abbattere il sistema dominante, una violenza, quella anarchica, “che cessa dove cessa la necessità della difesa e della liberazione“. Di fronte ad un evento sciagurato come l’attentato avvenuto nel 1921 al Teatro Diana di Milano, Malatesta espresse una dura condanna nei confronti del gesto (che definì “delitto esecrando che giova solo a chi opprime i lavoratori e a chi perseguita il nostro movimento“, rimarcando in seguito il fatto che «…Qualunque sia la barbarie degli altri, spetta a noi anarchici, a noi tutti uomini di progresso, il mantenere la lotta nei limiti dell’umanità, vale a dire non fare mai, in materia di violenza, più di quello che è strettamente necessario per difendere la nostra libertà e per assicurare la vittoria della causa nostra, che è la causa del bene di tutti…»), ma contemporaneamente mostrò comprensione nei confronti degli attentatori, «compagni nostri, buoni compagni nostri, pronti sempre al sacrificio per il bene degli altri»; gente che «nel compiere il loro tragico ed infausto gesto intendevano fare opera di sacrificio e di devozione. […] Quegli uomini hanno ucciso e straziato degli incolpevoli in nome della nostra idea, in nome del nostro e del loro sogno d’amore. I dinamitardi del “Diana” furono travolti da una nobile passione, ed ogni uomo dovrebbe arrestarsi innanzi a loro pensando alle devastazioni che una passione, anche sublime, può produrre nel cervello umano (…)».È anche alla luce di queste considerazioni che per me il pensiero di Malatesta risulta più attuale che mai, un pensiero che, come lui diceva riferendosi alla pratica dell’anarchismo, deve adeguarsi ai tempi ed alle circostanze che tra loro differiscono.

Malatesta morì ma non si spense, Malatesta morì ma mai si arrese, né mai vennero a mancare i compagni e le compagne che, in ogni luogo ed epoca successiva, furono pronti a lottare per le stesse idee cha animarono la sua azione in vita. Non un personaggio da erigere su di un piedistallo che mai avrebbe voluto, ma un compagno da apprezzare e rispettare nel presente, impegnandosi nella lotta come lui fece in vita consegnandoci un esempio immortale.

(Video: brano inedito del cantautore Alessio Lega, eseguito  presso il monumento a Emilio Canzi (Peli di Coli – PC) il 24/06/2012).

Intervista con l’anarchico nigeriano Sam Mbah.

Fonte: Anarkismo.

Sam Mbah

“Nigeria, Marzo 2012

Intervista con Sam Mbah


Intervistatore: E’ con grande piacere che presento Sam Mbah, autore dell’innovativo libro African Anarchism, avvocato, giornalista, attivista. Questa intervista è stata realizzata a Enugu, in Nigeria, nel marzo 2012. Sam, ti ringrazio moltissimo per aver trovato il tempo per questa intervista.

Sam: Il piacere è il mio, Jeremy.

Sono passati 15 anni dalla pubblicazione del tuo libro sulle prospettive dell’anarchismo in Africa. C’è forse qualcosa che oggi aggiungeresti o che cambieresti?

Sì, ci sono delle idee che aggiungerei, ma senza fare dei cambiamenti. In questi anni ho raccolto del materiale aggiuntivo in cui mi sono imbattuto nel corso delle mie ricerche.

Penso che si possano fare delle integrazioni al libro, ma senza cambiamenti né riduzioni. C’è spazio per fare delle aggiunte ed è qualcosa che ho già iniziato a fare con l’edizione spagnola del 2000, la quale è più ampia e contiene degli approfondimenti su alcuni punti trascurati nella edizione originale. Ho cercato di andare più a fondo su quelle società africane che condividono medesime caratteristiche, come gli Igbo, i Tiv, gli Efik, i Tallensi nonché quella molteplicità di tribù e di gruppi sociali che abbiamo in Nigeria e che avevo già menzionato nell’edizione originale. Ho provato anche ad esplorare altri gruppi in altre parti del mondo come l’America Latina, riuscendo poi a tracciare dei parallelismi tra le rispettive esistenze sociali e sistemi di organizzazione sociale, relativamente alle caratteristiche ed alle peculiarità dell’anarchismo, per come lo intendo io.

Per coloro che non hanno letto il libro, puoi riassumere cosa intendi per anarchismo e come lo leghi ad alcuni aspetti intrinseci della cultura africana?

OK, nel libro ho messo in evidenza fin dall’inizio in maniera molto esplicita come l’anarchismo in quanto ideologia, in quanto corpus ideologico ed in quanto movimento sociale sia lontano dall’Africa. Ma l’anarchismo in quanto forma di organizzazione sociale, in quanto base delle società organizzate – non è affatto lontano per noi. E’ invece parte integrante della nostra esistenza in quanto popolo. Mi riferisco al sistema comunitario di organizzazione sociale che esisteva ed ancora esiste in diverse parti deIl’Africa, dove le persone vivono le loro vite in comunità e si percepiscono come parte integrante delle loro comunità, a cui contribuiscono immensamente per la loro sopravvivenza in quanto unità. Ho messo in evidenza gli aspetti della solidarietà, della coesione sociale e dell’armonia che esisteva in tante società comunitarie in Africa ed ho cercato di trovare dei collegamenti con i precetti dell’anarchismo, compreso il mutuo appoggio, compreso lo sviluppo autonomo di piccole unità ed un sistema che non è fondato sulla monetizzazione dei mezzi di produzione e delle forze produttive della società. Così, mi guardo indietro ed avverto, come dicevo prima, che se su questi aspetti si sviluppassero ulteriori ricerche, queste potrebbero portare ad ulteriori acquisizioni su come queste società fossero in grado di sopravvivere. Ma, con l’avvento del colonialismo e con l’integrazione delle economie e delle società africane all’interno dell’orbita globale del capitalismo, alcune di queste cose sono oggi cambiate. Abbiamo così iniziato ad avere delle classi ricche, ad avere una classe politica dominante che sta sopra e controlla ogni persona. Abbiamo iniziato ad avere una società altamente militarizzata in cui lo Stato e coloro che lo controllano hanno il monopolio degli strumenti di violenza e sono pronti ad usarli contro la gente comune. Questo è il loro business.

Negli ultimi anni abbiamo visto un aumento del potere autoritario in diverse parti del mondo, le misure di austerità, sia all’indomani dell’attacco terroristico dell’11 settembre agli USA sia più di recente con la crisi finanziaria globale. Come vedi quello che sta accadendo e come influisce sull’Africa e sulle lotte qui?

Quando scrissi African Anarchism con un mio amico, avevamo sullo sfondo tre decenni, quasi quattro, di governo militare, in Nigeria. Il governo militare era una forma di governo che centralizzava oltremodo i poteri e che si configurava come una dittatura, quale era, e come una emanazione del capitalismo. Se allora la società nigeriana e gran parte dell’Africa erano sotto la stretta dei governi militari e dell’autoritarismo militare, oggi abbiamo una amministrazione nominalmente civile, una democrazia nominalmente civile. Alcuni l’hanno chiamata democrazia di governo, altri l’hanno chiamata democrazia disfunzionale, tutti i tipi di definizione, nel tentativo di cogliere il fatto che fosse qualcosa di ben lontano dalla democrazia. Per me, ad esempio, si tratta di una estensione del governo militare. Questa è nei fatti una fase di governo militare. Perché se si guarda alle democrazie in Nigeria e nel resto dell’Africa, coloro i quali stanno dando forma e futuro a queste democrazie sono in modo predominante ex-militari di governo nonché i loro apologeti e collaboratori all’interno della classe civile.

Ora, guardando a livello globale, il capitalismo è in crisi. In ogni caso, il capitalismo non può esistere veramente senza crisi. La crisi è la salute del capitalismo. Questa crisi è proprio quella di cui molti filosofi, da Marx ad Hegel, da Lenin a Kropotkin, da Emma Goldman fino ad oggi a Noam Chomsky hanno trattato in modo estensivo: cioè la tendenza alla crisi insita nel capitalismo. Quindi, tra l’uscita di African Anarchism e l’oggi, abbiamo avuto l’11 settembre, la cosiddetta “guerra al terrore”, la crisi finanziaria del 2007-2008, e oggi dobbiamo affrontare una crisi economica ancora più grande che ci ricorda la grande depressione degli anni ’30. E non vi è assolutamente nessuna garanzia che, se anche l’economia globale uscisse dalla crisi, non si ricada in un’altra crisi, perché la tendenza alla crisi è parte integrante del capitalismo. Per noi, qui, questi sviluppi storici hanno avuto un grave impatto sulla nostra società, sulla nostra economia, sul nostro governo.

Se poniamo come inizio l’incidente dell’11 settembre, vediamo che oggi il mondo è stretto nella morsa sia del terrorismo che dell’anti-terrorismo. Qui in Nigeria nel corso di un anno, tutto il paese è stato oggetto di attacchi dinamitardi, esplosioni, ogni giorno c’è una bomba messa da qualche parte. E come reagisce lo Stato nigeriano? Reagisce con sempre maggiore forza, e facendo così produce danni collaterali e vittime dovunque. Dunque neanche noi siamo immuni dalle ondate di terrorismo e dalla “guerra al terrorismo” in cui l’Occidente ci ha imbarcato dopo l’11 settembre. Anche il nostro paese è sottoposto alla stretta del terrorismo. Ed è ironico che ogni volta che una bomba esploda in qualche posto, il governo si metta a sbraitare: “Questo è terrorismo! Questo è terrorismo!”. Ma c’è la tendenza alla linea dura da parte del governo e delle agenzie di Stato che fanno ricorso ad una forza e ad una violenza inadeguate a risolvere una questione che potrebbe essere risolta altrimenti senza perdita di vite – cosa su cui si sorvola come se fosse normale. Ogni volta che una bomba viene messa in qualche posto, il governo risponde dicendo che si tratta di terrorismo. Vorrei dire che sono piuttosto i governi e gli Stati in Africa la maggiore fonte del terrore. Lo Stato in Africa è la maggiore fonte di terrorismo. Credo che la società non potrebbe che stare meglio se lo Stato cessasse di agire insieme alle sue agenzie quali strumenti di terrore contro la popolazione comune e la gente normale.

Dunque, la crisi economica globale, la crisi globale del capitalismo, ha avuto un impatto negativo sulle economie africane, compresa la Nigeria – dato che noi siamo parte e componente del sistema capitalistico globale, sebbene noi siamo partners disuguali nello scambio capitalistico globale. La nostra economia dipende dalle materie prime. La nostra economia è a mono-coltura. Qualunque cosa accada al petrolio ha subito un effetto di crisi si di noi. E questa è una delle ragioni per cui i nigeriani e lo stato nigeriano sono in una situazione di stallo dagli inizi del 2012, in seguito alla vicenda delle sovvenzioni fantasma che il governo aveva detto di voler rimuovere incontrando la resistenza popolare.

Potresti spiegare meglio come funziona la tassa/sovvenzione sul carburante in Nigeria?

OK. La tassa sulla benzina, o “sovvenzione alla benzina” come la chiama il governo nigeriano, vuol dire che il governo sta sovvenzionando il costo della benzina per i cittadini. E cioè che i nigeriani non pagano un valore realistico per la benzina. Ma il contro-argomento è che noi siamo un paese produttore di petrolio, e non c’è nessuna ragione per cui il costo della benzina dovrebbe far riferimento al mercato globale o internazionale. Noi abbiamo le raffinerie, le quali tutte insieme hanno una capacità di raffinazione di 500.000 barili al giorno. Ma si scopre che negli ultimi 20 anni queste raffinerie non hanno funzionato. E non hanno funzionato a causa della corruzione. Non hanno funzionato perché i poteri forti che ci sono nel paese non sono interessati a che queste raffinerie funzionino. L’unica ragione per cui queste raffinerie non funzionano è perché c’è la corruzione ed un sacco di gente nel governo, nell’esercito e nella burocrazia, trae vantaggio dall’intera importazione di prodotti della raffinazione del petrolio. La Nigeria è forse l’unico paese dell’OPEC che importa il 100% dei suoi bisogni di petrolio raffinato.

Quindi all’inizio del 2012…

Allora la gente comune in Nigeria dice, se le nostre raffinerie lavorassero e raffinassero il nostro greggio, il governo dovrebbe dirci qual è il costo del greggio e dei prodotti raffinati. E sulla base di questi costi stabilire un prezzo. Se invece non sei in grado di far funzionare le raffinerie e fissi il costo dei prodotti petroliferi sulla base del prezzo sui mercati internazionali, allora state commettendo un grave errore. Perché il costo della vita in Nigeria è diverso dal costo della vita negli Stati Uniti. Allora il governo dice: “Paghiamo molto gli importatori di prodotti petroliferi sottoforma di sovvenzioni” – cioè la differenza tra il prezzo all’importazione e quello di vendita dei prodotti raffinati. Ma poi scopri che persino quelli che stanno al governo, persino i ministri del petrolio, se ne escono dicendo che gran parte di quello che paghiamo come sovvenzione si basa su una corruzione documentata, su cui il governo non indaga e su cui non intende fare chiarezza, che coinvolge dirigenti di lunga carriera degli organismi e delle agenzie che si suppone debbano regolamentare l’industria del petrolio. Costoro sono quelli che pagano a se stessi ed alle loro compagnie enormi somme. Faccio un esempio per far capire il concetto di sovvenzioni petrolifere. Il governo nigeriano consente ad una molteplicità di operatori di commerciare in prodotti petroliferi. Questi comprano i prodotti petroliferi da una molteplicità di operatori internazionali, quando nei fatti la National Petroleum Corporation – la NPC – che è la nostra compagnia petrolifera nazionale, può fare accordi con le raffinerie all’estero ed acquistare direttamente da loro i prodotti raffinati. Invece questi preferiscono ricorrere a dei mediatori che procurano i prodotti raffinati dalle raffinerie estere e li vendono alla NPC a tassi esorbitanti.

Allora cosa è accaduto agli inizi del 2012?

All’inizio di quest’anno il governo intendeva deregolamentare il settore alla pompa dell’industria del petrolio. E la società civile insieme ai lavoratori hanno protestato e fatto resistenza. In breve venne indetto uno sciopero di 2 settimane. In queste due settimane, la gente non andava a lavorare e protestava nelle strade di Lagos, di Kaduna, di Port Harcourt, di Kano, di Ibadan, in diverse parti del paese. E siccome il governo aveva capito la determinazione dei nigeriani nel resistere a questi aumenti arbitrari, fece marcia indietro, portando l’aumento del prezzo dei prodotti petroliferi dal 100% in più al 30% in più. E naturalmente il mondo sindacale in pratica si ritenne soddisfatto, mentre la società civile e la massa della popolazione era pronta a proseguire la protesta ed a rifiutarsi di pagare l’aumento del 30%, ma i sindacati erano d’accordo ed ora siamo a questo punto.

Insomma è una lotta non conclusa. Io credo che il governo intenda ancora raggiungere l’obiettivo dell’aumento del 100% del prezzo dei prodotti petroliferi. Ma se nel governo c’è ancora qualcuno che pensa con la sua testa e che sia mosso da un qualche senso di obiettività, si renderebbero subito conto del fatto che non sarà facile placare i nigeriani i quali sono determinati a resistere a questi aumenti arbitrari basati su false analisi relative allo strumento delle sovvenzioni. La gente si sta mobilitando. Proprio mentre il governo sta studiando altre strategie con cui aumentare subdolamente il prezzo del petrolio, la gente si reincontra e cerca di capire come sostenere la propria causa.

In queste mobilitazioni di massa così foriere di speranze, ci sono elementi che riflettono il movimento globale che abbiamo visto di recente in azione, fino ad usare in certi casi il nome “Occupy Nigeria”. Abbiamo visto l’esplosione dell’Occupy movement e della primavera araba, cosa ne pensi?

Sì, sì, Occupy movement in azione in alcune parti dell’America e dell’Europa ha davvero ispirato un sacco di gente in Nigeria. La determinazione ed il coraggio che hanno caratterizzato Occupy movement in diverse parti dell’America e nelle capitali europee, è un indicatore delle infinite possibilità che si aprono quando il popolo decide di lottare. La primavera araba da parte sua è stata una delle più innovative esperienze per tutti noi in Africa. Infatti, ne ho parlato con i miei amici e secondo me la primavera araba sarebbe dovuta verificarsi nell’Africa sub-sahariana, piuttosto che nel mondo arabo, poiché le brutte condizioni di vita in Africa sono peggiori degli standards di vita relativamente avanzati nella maggior parte dei paesi arabi e dei nostri vicini in nord-Africa. Sì, la primavera araba sarebbe dovuta succedere nell’Africa sub-sahariana. Questo è quello che credo. Ma perché non è successo? Perché non siamo stati capaci di trasformare la nostra rabbia in determinazione, non siamo stati capaci di costruire la necessaria coscienza sociale, tale da spingere a sostenere una simile lotta.

Ma sulla base di ciò che è successo di recente in Nigeria, non ho dubbi che la gente sta iniziando a trarre lezione da quello che è accaduto nel mondo arabo. E si pone delle domande – se è potuto succedere nel mondo arabo, perché non anche da noi? Se persone che stanno meglio di noi possono scegliere di lottare, di protestare nelle strade per giorni e mesi, come mai noi non abbiamo nemmeno la luce? La luce in Nigeria è un lusso. La nostra economia si basa sui generatori. [L’energia elettrica di Stato funziona molto poco; i ricchi usano generatori privati di elettricità] Ognuno deve pensare a procurarsi l’acqua per sè, a procurarsi la propria sicurezza. Qui non funziona niente. Non è come in Libia. Non ci sono mai stato, ma ho letto storie sulla Libia, sull’Egitto, sulla Tunisia. Queste sono società meglio organizzate, dove i servizi pubblici funzionano. Ma qui nell’Africa sub-sahariana non c’è nulla che funzioni. Allora, posso dire senza paura di essere smentito che le proteste di gennaio in Nigeria, sono state ispirate dall’Occupy movement di America ed Europa, come pure dalla primavera araba. Allora, non so se le nostre proteste sono giunte al punto di poterle chiamare “primavera nigeriana”, ma scommetto che la primavera nigeriana deve ancora venire.

Sam, i cambiamenti climatici sono un’altra grande minaccia per i nigeriani, come per chiunque sulla Terra. Quali sono le questioni ambientali qui? Quale coscienza esiste sulla giustizia ambientale e sullo sviluppo sostenibile?

Risponderò alla tua domanda da due prospettive. Prima sul piano generale e poi su un piano più personale. La minaccia dei cambiamenti climatici è reale. Noi, in questa parte di mondo, non ne siamo immuni. Se ci guardiamo intorno ci accorgiamo che stanno salendo i livelli di umidità. Recentemente, nel posto in cui vivo (un piccolo bungalow di 3 stanze), se non c’è luce [senza elettricità, niente ventilatori], non riesco a dormire. I miei figli non riescono a dormire, tranne che durante la stagione delle piogge. A peggiorare la situazione il fatto che la nostra erogazione di elettricità è saltuaria. Mi sono accorto che negli ultimi 3 anni, tra i mesi di aprile e marzo, prima che inizino di nuovo le piogge, sudo come non ho mai sudato in vita mia. La temperatura si è alzata a livelli che non ho mai visto da piccolo e nemmeno negli anni ’80 e ’90. Negli ultimi 5 anni, bisogna abituarsi a vivere a temperature altissime. E non bisogna andare a cercarne le cause tanto lontano.

Basta guardare le foreste intorno a noi… Nel mio villaggio, c’erano fitte foreste dove persino i bambini più piccoli facevano fatica ad entrare. Oggi la maggior parte di quelle foreste non ci sono più. Sui piccoli alberi e sulle mini-foreste non c’è nessuna forma di controllo quotidiano. Nei villaggi, il controllo si fa a livelli davvero ridicoli. Non c’è nessuna agenzia governativa in questa parte del paese che faccia qualcosa per regolamentarlo, per ridurlo, per ridurlo al minimo. Allora gli alberi vengono tagliati come non era mai successo prima e nessuno fa niente per rimpiazzarli. La superficie delle foreste è andata decrescendo costantemente in questa parte del paese dove la densità abitativa è probabilmente la più alta in Africa a parte il Delta del Niger, e dove le attività umane stanno avendo un grave impatto negativo sull’ambiente. La gente costruisce senza controlli, si fanno le strade e si bruciano i cespugli. C’è una deforestazione altissima. Ed una delle conseguenze della deforestazione in questa parte del paese è l’erosione del suolo, i calanchi, in certi posti ci sono strade spezzate in due. Poi per forza i torrenti, i fiumi ed i ruscelli che avevano una notevole presenza di vita acquatica sono oggi in secca. C’è un torrente a 200 metri dal mio villaggio. Quando ero piccolo non l’ho mai visto in secca. Negli ultimi 10 anni, se per caso non piove tra febbraio-marzo-aprile, va in secca.

E cosa ne pensa la gente? Vogliono lo sviluppo, ma come lo giustificano a fronte della sostenibilità?

La gente comune non ha una chiara coscienza di quello che sta succedendo. Se la prendono con le forze del male, con mani invisibili e con tutti gli oggetti metafisici per quello che succede. Ed infatti spetta al governo informare la gente sulla conseguenze negative della deforestazione, dello squilibrio nell’utilizzo delle risorse, sui benefici derivanti da uno sviluppo sostenibile e pianificato – sia a livello individuale che sociale in maniera più ampia. Ma il governo non sta facendo molto qui. C’è proprio una assenza totale di azione pubblica e di coscientizzazione sui principi di base.

E poi succede che anche nei nostri villaggi, i terreni che erano di solito fertili, non producano più molto cibo, né raccolti abbondanti come una volta. Queste sono le conseguenze dei cambiamenti climatici.

Certo, a livello di elite, di minoranze illuminate, c’è il realizzare che sì, c’è qualcosa di sbagliato. Ma a livello di gente comune, non c’è nessuna coscienza, nessuno sforzo per capire che è nel loro interesse far sì che l’ambiente sia protetto.

Hai citato il Delta del Niger. Si tratta di un’area in cui la lotta ambientale e sul petrolio è stata particolarmente acuta, con fuoriuscite massicce di petrolio ma anche attività militanti che hanno avuto un impatto reale sulla produzione cercando di rivendicare per il popolo parte della ricchezza derivata dal petrolio. Qual è il tuo punto di vista su queste attività militanti nel Delta del Niger?

Queste attività militanti non devono essere considerate come un fatto isolato. Esse sono la conseguenza dello sfruttamento messo in atto dalle compagnie petrolifere che operano nel Delta del Niger, dove non applicano i migliori regolamenti internazionali che invece osservano in qualsiasi altra parte del mondo. In Nigeria, questo succede perché vi è complicità tra queste compagnie, lo Stato nigeriano ed il governo locale, per cui fanno quello che vogliono. Come se il domani non esistesse. Possono farlo perché nessuno le richiama all’ordine, nessuno che le richiami alle loro responsabilità. Allora l’emergere dei gruppi militanti nel Delta del Niger è conseguente a queste pratiche e tendenze sfruttatrici, nonché all’assoluta mancanza di cura per l’ambiente nell’esplorazione, perforazione e produzione da parte della maggior parte delle compagnie petrolifere che operano nel Delta del Niger.

Allora, se li inquadriamo in questo contesto, i gruppi militanti stanno rispondendo ad una minaccia ben chiara e presente nei confronti della sopravvivenza delle comunità che vivono nel Delta. Quando eravamo piccoli, siamo cresciuti sapendo che la maggior parte dei villaggi, delle tribù e dei gruppi sociali del Delta erano essenzialmente pescatori. Ma con la costante estrazione di petrolio, la spoliazione dell’ambiente, la scomparsa della fauna e della vita acquatica del Delta, gran parte dell’industria collegata alla pesca è scomparsa. Molte delle attività industriali ed agricole che si facevano sono ora scomparse.

Allora, quando hai rubato ad un popolo il suo ambiente, come ci si può aspettare, in buona coscienza, che possa sopravvivere o continuare ad esistere come popolo? Vedi, il nostro popolo ha un detto per cui la natura ha messo a disposizione di ogni gruppo i mezzi per la sopravvivenza. Ti faccio un esempio. Nel sud-est, nella terra degli Igbo per esempio, il nostro popolo vive soprattutto di terra. Sopravviviamo grazie alle nostre palme, facciamo olio di palma, coltiviamo, questa è la base della nostra sussistenza. Se vai a nord, lì non ci sono le palme. Sopravvivono con altri tipi di agricoltura, piantano cipolle, patate, fanno pastorizia. Se vai nel Delta del Niger, i mezzi di base per la sopravvivenza sono la pesca ed alcune forme di agricoltura e di coltivazione. Allora se siamo d’accordo che la natura ha disposto per ogni gruppo certe forme di sussistenza, siamo testimoni di una situazione in cui i mezzi di sussistenza in gran parte del Delta del Niger sono stati spazzati via. Per colpa delle attività delle compagnie petrolifere che non badano a nessuna forma di interesse e responsabilità sociale.

Allora, questo è il contesto in cui collocare i militanti che sono insorti nel Delta del Niger dalla fine degli anni ’90 in poi. Sì, la maggior parte di questi gruppi sono coinvolti in varie forme di criminalità ed anche di banditismo, che non servono affatto agli interessi dei nigeriani abitanti comuni del Delta. E questo va condannato, ma non inficia in nessun modo il peccato originale che li ha spinti a peccare ulteriormente.

D’accordo. Parlando di peccato, la Nigeria è una società molto religiosa. La religione qui è molto radicata. E spesso assume forme molto conservatrici ed a volte violente. Qual è la tua opinione e cosa comporta questo per l’anarchismo e per l’organizzarsi nel senso più più ampio?

Ti dirò che la religione e le pratiche religiose sono entrate in una nuova fase in Nigeria. Prima del colonialismo, la nostra gente era per lo più di religiosità africana, con l’adorazione dei nostri piccoli dei- dei del tuono, del fiume e così via. Con l’arrivo del colonialismo, le due principali religioni globali – l’Islam ed il Cristianesimo – sono diventate le forze predominanti nelle vite dei nigeriani.

La rivalità e la competizione tra le due religioni portava a non considerare il fatto che non tutti i nigeriani erano musulmani o cristiani. Anche nel centro-nord, ci sono tribù pagane con diverse forme di religiosità africana. Ma oggi la Nigeria viene presentata e stereotipata con un sud cristiano ed un nord musulmano. Eppure se vai nel nord ci trovi tanti che non aderiscono all’Islam, se vai al sud troverai tanti che non aderiscono al cristianesimo.

Ma direi che negli ultimi 20-30 anni la singola influenza del cristianesimo o dell’Islam ha assunto una valenza negativa nella società nel senso che entrambe le religioni sono diventate fonti di manipolazione, manipolazione politica della gente comune. Quando senti che ci sono disordini religiosi nel nord, disordini religiosi ad Est, e poi vai ad analizzare i fatti, si scopre che non hanno una base religiosa. I politici usano la religione per manipolare la gente comune nelle lotte per la conquista di posizioni politiche e per assoggettarla alle elite.

La religione è divenuta uno strumento di manipolazione, di sfruttamento, di inganno, una sorta di bendaggio sugli occhi su larga scala della gente comune in Nigeria. E’ uno degli elementi militanti contro la coscienza sociale e lo sviluppo di una classe operaia, in quanto classe, in Nigeria. Contro lo sviluppo di una classe dei deprivati, degli oppressi, degli emarginati, che sentano e condividano interessi comuni e siano pronti a lottare per questi comuni interessi. La religione viene posta in mezzo come un cuneo, come una fonte di conflitti tra gente comune. Come ha detto Karl Marx, la religione diventa l’oppio delle società. Ad ogni piccola cosa viene dato un significato ed una colorazione religiosa che in realtà non ha. Si tratta di una tremenda remora allo sviluppo della coscienza sociale in Nigeria e in tutta l’Africa.

Sì. L’hai già detto, ma queste divisioni religiose sono spesso collegate (ma non solo collegate) a divisioni etniche, razziali e di genere per dividere le persone le une dalle altre. Cosa ne pensi?

Beh, il problema che sta di fronte a noi non è la razza come tale, quanto la religione, l’etnicità. La religione in Nigeria ed in Africa è una questione geografica. Trovi che quella religione tende a conformarsi in certi confini etnici. Quando si parla di un Fulani, si pensa ad un musulmano. Quando si parla di un Igbo, si immagina un cristiano cattolico. Quando si parla di uno della cintura centrale della Nigeria, pensi ad un cristiano evangelico. Allora, molte differenze religiose sono diventate differenze geografiche in natura, nel senso che certi confini etnici coincidono con certe religioni. La gente è stata portata a vedere queste differenze come caratteristiche permanenti di vita, e non come cose che si possono superare. La verità è che prima della mercificazione dello scambio e dei mezzi di sussistenza nella nostra società, prima della monetizzazione dell’economia, la gente si relazionava reciprocamente e non badava alle differenze religiose. Ognuno pensava che la religione dell’altro dovesse essere una sua questione personale. Ma con la politicizzazione della religione, per come la vediamo oggi, le differenze sociali sono state esaltate dai politici, che le usano per manipolare e controllare la massa della popolazione.

E che ci dici della questione di genere? Ci sono dei cambiamenti nella lotta di liberazione delle donne?

La lotta per la liberazione delle donne in Nigeria e nel resto dell’Africa deve fare un lungo cammino. Nel senso che, la nostra società, che è naturalmente patriarcale, pone l’enfasi sul ruolo dell’uomo. In molte società africane, come ho cercato di far vedere nel mio libro, il ruolo delle donne è diminuito, ridotto quasi a note a piè pagina. Ma la verità è che persino nelle tradizionali società africane, se uso la tradizionale società degli Igbo come esempio, il ruolo delle donne è decisivo, è centrale nella creazione di equilibrio ed armonia sociale. Ma è in gran parte un ruolo misconosciuto.

Stai parlando del ruolo di leaders che le donne svolgono?

Sì. Non ci crederesti, ma lascia che ti dica una cosa – una delle meno ovvie manifestazioni della società africana. Nelle tradizionali società africane, nella tradizionale società Igbo, per esempio, una donna che non riesca a dare figli a suo marito, si trova -nel caso il marito muoia- nella situazione di non poter dare continuità alla discendenza del defunto, per cui è cosa comune per le donne che si trovino in questa situazione, sposare un altro uomo. Allora quando gli africani dicono che il lesbismo o le donne che sposano altre donne, o uomini che sposano altri uomini sono cose che non fanno parte della nostra tradizione, qualsiasi analista politico con le idee chiare, qualsiasi antropologo o sociologo africano, dovrebbe sapere che nella società degli Igbo era cosa comune per una donna sposarsi con un’altra donna, quando si trovava a far fronte ad una situazione di vedovanza, ed essere considerata moglie di una donna più anziana. La quale poteva anche portare a casa un uomo che giacesse con la donna più giovane e fare figli alla memoria dell’ultimo marito.

La tradizionale società africana sarebbe squilibrata e disarmonica senza il ruolo delle donne. Il cui ruolo era decisivo per la risoluzione di dispute. Tra gli Igbo, la risoluzione delle dispute per le terre, nelle famiglie e nei casi di difficili questioni sociali, lo sguardo delle donne, specialmente di quelle che avevano fatto qualche emancipazione materiale, veniva costantemente consultato dagli uomini nelle tradizionali società africane.

Spostandoci dalla tradizionale società africana ai giorni nostri, l’istruzione è stata la forza decisiva per la liberazione delle donne. Le donne vanno a scuola, nei territori degli Igbo ci sono oggi più donne che uomini a frequentare le scuole. Perché gli uomini vanno in giro a fare affari, si dedicano al tradizionale commercio. Sempre più spesso, in molte scuole primarie e secondarie il numero delle studentesse supera quello degli studenti. Molte famiglie hanno capito che se le donne sono istruite, se ne giova tutto il paese, se mandi a scuola un uomo, in certi casi, stai solo formando un individuo.

L’importanza delle donne nella nostra società viene costantemente riconosciuta. I tribunali hanno svolto un certo ruolo nel cercare di liberare le donne dallo stato di inferiorità sociale. In passato tra gli Igbo, le donne non potevano ereditare gli immobili paterni, anche se erano le uniche figlie dei loro genitori. Ora c’è una sentenza di tribunale che dice che un uomo può fare testamento e lasciare le sue proprietà ai figli ed alle figlie in modo uguale. Nei casi in cui non ci sono figli maschi, l’eredità può andare alle figlie.

Quindi c’è stato un qualche progresso. Non c’è un corso di laurea nelle università in cui non ci siano donne – a medicina, ingegneria, geologia, informatica, e non solo materie umanistiche o artistiche. Le donne sono ovunque, persino nell’esercito. Ma devo dire comunque, che dato il fatto che la nostra società è divisa al 50% tra uomini e donne, c’è ancora molto spazio per l’emancipazione delle donne. E’ una lotta continua. Non è qualcosa che ha un termine. In questo momento siamo ad un punto tale da poter prevedere un futuro molto luminoso per la liberazione delle donne e per l’uguaglianza di genere nella nostra società.

Sam, tu hai avuto un ruolo importante nella Awareness League, che era una organizzazione anarchica nigeriana attiva negli anni ’90. Puoi raccontarci della sua ascesa e del suo declino?

E’ con una certa nostalgia che ne parlo, perché la Awareness League era un’idea romantica. Quando siamo andati all’università nei primi anni ’80, abbiamo trovato gruppi socialisti, un insegnamento socialista, un insegnamento più che altro marxista. E fummo attratti dal marxismo, nel senso che esso parlava di una nuova alba futura nella società, e per estensione, nel continente africano. Fummo completamente coinvolti dalle prospettive del marxismo e dalla critica al capitalismo fatta da Marx e dal marxismo. Non ci volle molto perché ci definissimo marxisti all’interno del campus, e continuammo ad esserlo anche dopo l’università. Mi sono laureato con una tesi in economia politica sul debito estero della Nigeria costruita con gli strumenti dell’analisi marxista. Come quello per cui Marx dice che l’economia si pone come un asse attorno a cui girano gli altri aspetti della società, siano essi politici o culturali. Parlai anche della tendenza del capitalismo alla crisi. Queste erano le idee che mi coinvolgevano. Ma anche l’idea della rivoluzione. Marx diceva che la storia di tutte le società esistenti era la storia della lotta di classe, e che la rivoluzione era la levatrice della nuova società, dando alla luce quella nuova.

In genere in Nigeria, dopo la laurea, devi fare un anno di servizio civile. Così fui mandato nella regione di Oyo la cui capitale è Ibadan. E’ stato lì che ho incontrato un paio di giovani socialisti come me, ed iniziammo ad organizzarci ed a parlare di marxismo, socialismo, resistenza di sinistra. Ci siamo definiti essenzialmente come organizzazione di sinistra. In quel periodo alcuni di noi si abbonarono al giornale “The Torch” (La Fiaccola, ndt), che si pubblicava a New York. Fu allora che iniziammo a prendere conoscenza per la prima volta delle prime idee anarchiche. E’ stato così che gradualmente, dopo la fine dell’anno di servizio nazionale, alcuni di noi che vivevano nel sud-est, iniziarono a pensare ad una piattaforma duratura. Anche perché il socialismo stava entrando in una crisi molto seria. La crisi dell’impero sovietico era in corso. Poco tempo dopo, il comunismo collassava in tutta Europa. E fu nel mezzo di questa crisi che noi iniziammo a pendere sempre di più verso posizioni anarchiche. Di conseguenza è nata la Awareness League, e il resto è storia.

La Awareness League trae la sua linfa prima di tutto dalla resistenza contro il governo militare in Nigeria. La continuazione del governo militare funzionava da fertilizzante. Fu una delle ragioni che continuarono a dare ossigeno alla nostra esistenza come Awareness League. E’ ormai storia che tra la fine degli anni ’80 e la fine degli anni ’90, la Nigeria ha vissuto il picco della lotta contro i militari. La Awareness League unì le sue forze con altri gruppi anti-militari nella resistenza alla dittatura in Nigeria. Fu nel corso dei contatti intrapresi con diversi gruppi anarcosindacalisti in tutto il mondo, tra Europa ed America, che insieme ai miei compagni decidemmo di scrivere un libro sull’anarchismo.

La lotta contro il governo militare finì con l’avvento del governo civile nel 1999. Posso dire che l’antagonismo espresso non solo dalla Awareness League ma da tutta la società civile, dai gruppi di quartiere e dalle organizzazioni di sinistra nel paese, virtualmente svanì. Perché i militari erano un fattore di unità, nel senso che ogni persona – anarchico, marxista, socialista, di sinistra – vedeva nei militari un nemico comune a cui resistere, a cui opporsi, da rovesciare se possibile. Con l’avvento del governo civile, non avevamo più quel tipo di nemico comune. Perché alcuni di quei gruppi, alcune individualità di questi gruppi, avevano iniziato a gravitare intorno alla politica borghese. Ma va detto che nella maggior parte dei casi il problema non stava in queste individualità che si avvicinavano alla politica borghese, perché erano tutti i gruppi della società civile insieme alle organizzazioni ed ai gruppi di sinistra che non erano preparati alle conseguenze di un avvento del governo civile. Non analizzammo seriamente quali sarebbero state le conseguenze della fine del governo dei militari e dell’avvento dei civili al loro posto. Demmo per scontato che si trattava della stessa cosa, di affari. Ma, come poi accadde, la fine del governo dei militari singolarmente segnò la fine della maggior parte di questi gruppi di quartiere e della società civile. La maggior parte di questi gruppi, compresa la Awareness League, si frammentarono.

All’alba del nuovo millennio, eravamo poche individualità di sinistra, alle prese con la realtà dell’esistenza sociale e degli sviluppi politici del nostro paese. Alcuni di noi sono ritornati a scuola, prendendo incarichi da insegnante in alcune università, altri sono alle prese con la realtà della sopravvivenza e dell’esistenza nel nostro tipo di società. Io ho dovuto affrontare delle sfide sul piano della salute – cosa di cui preferisco non parlare. Tra il 2007 ed il 2009, ho avuto seri problemi di salute. Per me è impossibile ricostituire la Awareness League nelle circostanze in cui ci troviamo oggi.

Mi dico che non possiamo ricreare la Awareness League, ma forse dobbiamo mantenere qualche forma di interazione tra di noi e con altri nella società civile. Dobbiamo continuare ad impegnarci, anche con quelli che sono coinvolti nella politica istituzionale, in qualche forma di appello a poter contare. Dobbiamo cercare modalità più realistiche per essere più rilevanti nella società e cercare noi di fare la differenza nelle nostre rispettive comunità e nella società in senso più ampio.

Per cui mi sono messo in contatto con un po’ di persone per creare una organizzazione non-governativa nota come Tropical Watch. Che si occupa soprattutto di sviluppo sostenibile e di ambiente, tra cui i cambiamenti climatici. In questo percorso ci siamo imbattuti anche in qualche lotta contro la corruzione. Poiché ci siamo accorti che una della maggiori minacce allo sviluppo sostenibile è proprio la corruzione. Questa rende impossibile allocare le risorse in maniera legale e trasparente. Ne trarrebbero beneficio tutti i settori dell’economia e della società. E’ la corruzione che rende impossibile ad esempio che il governo controlli le foreste in molte comunità. E’ la corruzione che rende impossibile procedere nella costruzione di strade, nella fornitura di acqua, nelle bonifiche. E’ talmente vasta la corruzione che è impossibile creare un equilibrio armonico tra l’utilizzo delle risorse e l’esistenza dell’ambiente e della società. Queste sono alcune delle cose che personalmente, insieme ad altri amici ed individualità, sto cercando di mettere in piedi.

Ma non è stato facile. Perché come ti ho detto quello che è successo alla Awareness League non è un caso unico – è successo ad ogni altro singolo gruppo della società civile, ad ogni altra organizzazione sociale organica nel paese che aveva preso parte alla lotta contro i militari. Ti faccio un esempio. Una delle più grosse ONG degli ultimi 15-20 anni in Nigeria è stata la Civil Liberties Organisation. Era un organismo impegnato nella lotta per i diritti umani, per un governo costituzionale, contro le violenze della polizia e contro tutte le forme di violenza ai danni dei civili, uomini e donne. La Civil Liberties Organisation (CLO) era cresciuta così tanto da avere sedi in diverse parti del paese. Ma ti posso assicurare che nel giro di 7-8 anni la CLO è quasi morta. Infatti, oggi è più o meno una sorta di fantasma, perché non c’è un solo stato della Nigeria in cui abbia una sede aperta e funzionante. Chi faceva il direttore di zona qui a Enugu è stato praticamente lasciato in balìa di se stesso. Non hanno pagato l’affitto della sua sede per 5 anni. Quello che voglio dire è che ciò che è successo alla Awareness League è quello che è capitato alla maggior parte delle altre organizzazioni. Anche la Tropical Watch stenta ancora a stare in piedi da sola.

Ci sono organizzazioni della classe operaia, sindacati, in Nigeria, che possono essere considerati come veicoli per la lotta di classe?

I sindacati in Nigeria sono stati molto attivi nelle prime lotte anti-coloniali. Ti ho già raccontato tempo fa delle lotte del minatori delle miniere di carbone qui a Enugu, che era il centro minerario della Nigeria. Durante le lotte anti-coloniali per l’indipendenza, i padroni coloniali fecero uccidere 49 minatori qui in città, minatori che stavano lottando contro lo sfruttamento. Fu una pietra miliare per lo sviluppo della lotta anti-coloniale in questa parte della Nigeria. Anche nella città di Jos, dove c’era una fiorente industria mineraria, gli operai erano ben organizzati. Le industrie minerarie diventarono un trampolino di lancio per la sindacalizzazione nel paese, compreso il servizio civile regolare. Alla svolta dell’indipendenza, avevamo un consistente sindacalismo operaio nel paese, che è proseguito fino all’arrivo dei militari.

Il governo militare riuscì ad irretire lo sviluppo del sindacalismo nel paese. Ci riuscirono facendo ricorso a sentimenti primordiali, alla religione, al tribalismo ed alle divisioni regionali, come a dire, dividi e governa, per manipolare i lavoratori. Dipende da chi è al governo. Il movimento sindacale nazionale in Nigeria – verso la fine della dittatura militare – cercò di far sentire la sua voce, iniziando ad indire scioperi nazionali sempre più forti ed iniziando a riorganizzarsi su scala nazionale.

Ma ti posso dire che le fortune del sindacalismo sono state ostacolate dal processo di deindustrializzazione che sta avendo luogo nel paese, a partire dagli ultimi giorni della dittatura militare. La maggior parte delle industrie hanno chiuso. Uno dei settori che impiegava più lavoratori nel paese era l’industria tessile ed ora non c’è più. L’industria tessile è stata completamente spazzata via. Ora importiamo prodotti tessili a buon mercato dalla Cina, dai paesi vicini, dall’India. L’industria tessile occupava più di 200mila operai in tutto il paese. Il settore dell’automobile aveva degli impianti di assemblaggio della Anammco qui a Enugu, la Peugeot era a Kaduna, la Peleot era a Bauchi, la Volkswagen era a Lagos. Ora sono tutti chiusi. Avevamo un settore dell’acciaio in diversi posti. Tutti chiusi. Dunque c’è stata una massiccia deindustrializzazione nel paese che nel giro di 20 anni ha colpito le speranze dei lavoratori.

Ora i settori che tirano sono quello pubblico, il settore bancario o l’industria del petrolio. Qui i lavoratori si sentono come dei privilegiati. E quindi fanno fatica a fare attività sindacale, tranne i più giovani. Lo stesso accade nel settore bancario, infatti una delle clausole di impiego è che non si organizzi attività sindacale. Per circa 10-20 anni i lavoratori hanno accettato questa situazione. Ma dopo i primi fallimenti di banche in Nigeria, che sono avvenuti alla fine degli anni ’90, i lavoratori più giovani del settore bancario stanno iniziando a ri-organizzarsi. Ma non sono più così efficaci. Per cui, fondamentalmente, i sindacati che ci sono in Nigeria, sono praticamente quelli del settore pubblico. E sarai d’accordo con me che l’esperienza sindacale industriale si fonda sui luoghi di lavoro dell’industria e non negli uffici con l’aria condizionata ed i colletti bianchi dietro le scrivanie.

Così lo stato delle attività sindacali in Nigeria è deplorevole. E la maggior parte dei dirigenti sindacali guardano alla loro posizione con un occhio alla loro carriera. Pensano alla carriera prima e più di ogni altra cosa. Questo è uno dei fattori chiave che ha influenzato le ultime manifestazioni nazionali, nel senso che i dirigenti del sindacato del Nigerian Labour Congress hanno capitolato all’ultimo minuto.

Lasciami spiegare che i ceti professionali in Nigeria – l’associazione dei medici, degli avvocati, degli architetti, degli ingegneri e professioni simili non sono interessate ad organizzarsi sindacalmente. Questi partono dalla prospettiva di percepirsi come membri privilegiati della società. Anche se le condizioni di una porzione significativa di questi ceti sono oggi a livello dei nigeriani comuni. Per loro non c’è un incentivo ad organizzarsi. Cercano invece come singole persone di sfruttare il gruppo professionale per usare il sistema a loro vantaggio personale o per gli interessi di gruppo.

Sam, quali sono le cose su cui la gente si attiva – gli attivisti di base nel sindacato, o le persone come te in Tropical Watch oppure le organizzazioni della società civile – quali sono le cose per cui la gente cerca di costruire le lotte? Tipo questioni pratiche quotidiane, in cosa le persone impiegano il loro tempo nel cercare di costruire le lotte sociali?

Noi, in quanto attivisti, cerchiamo di vederci. Cerchiamo di fare workshops. Teniamo alcuni workshops che sono sponsorizzati da agenzie di donatori, in cui si riesce a mettere insieme gli attivisti. Abbiamo fatto dei seminari e tenuto workshops sulla brutalità della polizia, sulla violenza della polizia, sulla violenza di genere, sui cambiamenti climatici. Questi seminari e questi workshops puntano a mettere insieme attivisti di tutte le tendenze. E di volta in volta, partendo dai cambiamenti sociali, politici ed economici intorno a noi, cerchiamo di organizzare riunioni tra gruppi ed individualità, e vediamo se riusciamo a trovare un accordo ed a costruire qualcosa.

Ma ad essere sinceri, specialmente nel sud-est non siamo stati capaci di costruire una salda società civile. La gente di Lagos è stata capace di creare modelli migliori perché essenzialmente loro hanno più esperienza in questo campo, che risale agli anni della dittatura militare. La gente di Abuja sta lavorando bene, perché a partire dal movimento per la sede del governo ad Abuja, siamo stati testimoni della concentrazione di attivisti che si organizzano per il riconoscimento governativo in un modo o nell’altro. Ma qui non abbiamo avuto fortuna. Credo che una parte del problema stia nel fatto che la maggior parte delle persone è occupata nella lotta quotidiana per la sopravvivenza. Ma riconosco che questa non è una scusa sufficiente per non essere capaci di organizzarsi.

Ecco l’esperienza di uno dei nostri compagni, Osmond Ugwu, il quale non molto tempo fa è stato vittima di una grande prepotenza di stato. Si era messo ad organizzare i lavoratori nella protesta contro la mancata adozione del salario minimo. Il salario minimo faceva parte del programma politico del governo del PDP (People’s Democratic Party, ndt), ed una legge sul salario minimo nazionale era passata in entrambe le camere della assemblea nazionale. Tutti gli stati del paese erano dunque tenuti ad adottare il salario minimo, a metterlo in pratica nei territori di competenza. Ma qui il governo di Enugu si è rifiutato di applicare la legge o ha cercato di dilazionarne l’applicazione. E quando Osmond ed altri 2 compagni hanno cercato di organizzare i lavoratori, di sensibilizzarli a reagire a questa ingiustizia da parte del governo, è stato messo in prigione. E’ istruttivo osservare che mentre Osmond stava cercando di organizzare i lavoratori, i dirigenti locali del sindacato (il Nigerian Labour Congress, ndt) stavano collaborando con il governo locale e stavano negoziando una attenuazione del diritto dei lavoratori ad organizzarsi. Infine è stato Osmond a pagarne il prezzo restando in carcere e finendo sotto processo. E’ stato rilasciato solo alla fine di gennaio. [2012]. Grazie soprattutto alle proteste sollevate da Amnesty International. Ed oggi deve affrontare delle accuse criminali che sono del tutto ridicole. Questo per capire quali sono le minacce che deve affrontare chi in questo paese intenda lottare per creare una nuova società in questo contesto ambientale.

Un ultima domanda Sam: come potresti definire la solidarietà globale? Cioè, come possono gli attivisti che vivono nei paesi cosiddetti “sviluppati” sostenere le lotte nella maggior parte del mondo e viceversa?

Sì, gli attivisti nel mondo sviluppato possono fare molto per sollecitare la coscienza della gente qui. Ma credo che in fin dei conti deve essere la gente qui ad assumersi la responsabilità per la propria vita, assumersi la responsabilità di resistere ai governi autocratici, assumersi la responsabilità di cercare di portare i governi a rispondere del loro operato.

La gente del mondo metropolitano può assisterci aiutandoci a costruire le nostre capacità. Vedi, i gruppi della società civile qui non se ne stanno a casa ad usare gli strumenti della moderna comunicazione – i social media – quelli che hanno avuto un ruolo molto importante nell’Occupy movement in diverse parti d’Europa e in America, e nella primavera araba. Rimarresti sorpreso se ti dicessi che la protesta nigeriana non è stata sostenuta in modo rilevante dall’uso dei social media. Sì, ci sono stati esempi in cui i social media hanno avuto la loro importanza, ma la nostra nozione di social media qui è quella di usare la posta elettronica o di gestire il tuo profilo su FB. Questa è la nozione media che hanno i nigeriani rispetto ai social networks. Ma ci sono ancora molte difficoltà su come utilizzare twitter o YouTube, come mettere in rete foto e altro, come creare un blog che sia facilmente accessibile agli altri attivisti che sono in rete.

E’ anche vero che qui l’accesso a internet si deve ancora sviluppare. In base ad una mia valutazione siamo sotto il 20% della popolazione. O ancora molto molto meno. Sì, la gente accede alla rete quando usa la posta elettronica, o quando usa Facebook. Ma se si parla di lotta sociale collegata alla rete, l’accesso a Internet scende a meno del 10%.

Così la gente del mondo metropolitano può davvero aiutarci cercando di costruire la capacità di usare gli strumenti della comunicazione dei social media. E’ cruciale fare dei progressi nell’organizzare e nel costruire la solidarietà col mondo esterno. Se avessimo accesso a questi mezzi, sarebbe più facile tenersi in contatto con il resto del mondo, e per quest’ultimo poter conoscere esattamente la vera situazione qui. Le persone qui dovrebbero essere messe nelle condizioni, dovunque si trovino, non solo nelle aree urbane, di poter fare delle foto e metterle in rete per trarne il maggior vantaggio possibile.

Sì. C’è qualcos’altro che vorresti aggiungere prima di chiudere?

Sì, vorrei dire poche cose ai nostri amici anarchici ed ai gruppi che in passato hanno lavorato con noi, che ci hanno aiutato, in un modo o nell’altro, specialmente dall’Europa e dal Nord America. Voglio dir loro che l’anarchismo in Africa non è morto. E’ importante sapere che l’anarchismo come movimento, come movimento politico, come piattaforma ideologica, ha bisogno ancora di un po’ di tempo per potersi cristallizzare qui. E nel frattempo, proseguiamo ad impegnarci del resto della società. Dobbiamo continuare a stanare il governo per costringerlo a dibattere sul nostro terreno. Ecco perché alcuni di noi si sono messi a fare le ONG. Quando qui parli alla gente di anarchismo, ti dicono:”Ah, bene. Cioè? Ah, no no no l’anarchismo è disordine, caos, confusione”. Naturalmente quando fai un’analisi adeguata dell’organizzazione sociale e di come questa [scorretta visione dell’anarchismo] conformi i principi anarchici [su come l’ideologia controlla le persone], capisci qual è il senso.

E’ difficile qui iniziare a costruire un movimento fondato solo sui principi anarchici. Ma possiamo costruire un movimento che chiami il governo alle sue responsabilità, cercando di lottare per l’ambiente, di lottare per l’uguaglianza di genere, per i diritti umani. Perché questi sono i principi minimi su cui una gran parte della popolazione si ritrova, ed ha senso per noi continuare ad interagire ed a interrogare ciò che esiste a livello sociale e di politica pubblica su queste basi. E cercare di far sì che la società civile non si estingua del tutto. Mentre quelli tra noi che continuano sinceramente a credere nell’anarchismo continueranno ad organizzarsi ed a sviluppare gli strumenti organizzativi che un giorno porteranno all’emergere del movimento anarchico.

Sì. Grazie Sam. Ci hai dato tanti spunti su cui riflettere. Credo che con persone come te così a conoscenza delle cose, così critici ed attivi, c’è sicuramente speranza che possa nascere quel movimento di cui ci hai parlato.

Grazie a te Jeremy.

* Questa è una traduzione della trascrizione completa dell’intervista fatta a Sam, nel marzo 2012 a Enugu, in Nigeria. Alcuni estratti sono su questo blog. Si può ascoltare o scaricare il file audio nella sezione audio del blog. L’intervistatore, Jeremy, fa parte del Jura Books Collective – un collettivo anarchico di Sydney in Australia. La traduzione è a cura di FdCA-Ufficio Relazioni Internazionali. “

Informazioni ed articoli sulla nuova operazione repressiva antianarchica a Trento e Rovereto.

Proseguono le manovre repressive del democraticissimo Stato italiano (quello che ancora non s’è disfatto di molti articoli del Codice Rocco) contro il movimento anarchico. Il 27 Agosto è scattata un’operazione dal nome che è tutto un programma, che vede indagati circa 43 compagni/e per associazione sovversiva (270bis). Per ora sono stati perquisiti spazi ed abitazioni tra Trento e Rovereto, il compagno Massimo Passamani è stato posto sotto arresto ed ora si trova in isolamento nel carcere di Alessandria, mentre un’altra compagna, Daniela, é agli arresti domiciliari. Per conoscere meglio i retroscena di questa nuova, mirabolante impresa dei paladini della legge, vi invito a leggere gli articoli che seguono. Intanto per chi volesse scrivere al compagno in carcere, questo è l’indirizzo attuale: Massimo Passamani,
Carcere San Michele strada Casale 50/A, 15122 Alessandria.

http://www.centrosocialebruno.it/sites/default/files/yabasta/561525_353733021375800_1962829719_n.jpg

Testo del volantino distribuito durante il presidio solidale del 28 Agosto 2012 a Rovereto;

“Massimo Passamani. Un anarchico dalla parte del torto”, riportato da Anarchaos;

“Dopo le Pussy Riot, ora tocca ai Ludd”, riportato da Anarchaos.