Come e perchè la Turchia supporta l’ISIS.

I movimenti politico-religiosi islamici sono stati usati dalle potenze occidentali in diversi luoghi e occasioni, soprattutto dall’inizio della guerra fredda tra USA e URSS, come diga all’espansione di idee comuniste, socialiste o semplicemente progressiste, come strumento di controllo sociale e politico sulle popolazioni locali e come bacino di reclutamento anche per forze paramilitari e terroristiche. La Turchia in particolare non è nuova a questo genere di cose, in bilico fin dai tempi della fondazione della repubblica ad opera di Kemal Atatürk tra severo laicismo e spinte alla (re)islamizzazione, ha attraversato fasi durante le quali le frange islamiche più radicali sono state foraggiate dai potenti del Paese con il benestare degli USA e della CIA. Tanto gli Hezbollah sono stati impiegati nella guerra contro le popolazioni curde in Turchia accanto ai fascisti del partito MHP, quanto movimenti come quello di Fetullah Gülen (che si presenta come democratico e moderato, ma ad un’analisi attenta si rivela essere uno dei motori della nuova ondata di islamizzazione in Turchia) hanno ricevuto sostegno e legittimazione non solo dal partito di Erdogan, ma anche da autorità politiche e religiose internazionali. Il problema per le potenze occidentali, insomma, nasce solo quando lo strumento, in questo caso il fondamentalismo islamico, sfugge al controllo e/o non adempie più alle funzioni richieste da chi si erge, a volte con troppe pretese, al ruolo di burattinaio. L’articolo che segue, tratto da Z-Net Italy, illustra alcuni aspetti dell’appoggio offerto dal governo dell’AKP di Erdogan all’organizzazione terroristica Daesh (ISIS):

 “Il segreto di Pulcinella della collaborazione tra la Turchia e lo Stato Islamico

rojava

Di Yasin Sunca

29 Novembre 2015

L’espansione del gruppo terrorista denominato Stato Islamico è sostenuto dall’appoggio risoluto della Turchia, insieme ad alcuni altri stati.

Fin dall’inizio della guerra civile in Siria, il governo turco dell’AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo)  ha cercato di perseguire una politica estera informata e motivata dalla sua mentalità esclusoria riguardo alle sue comunità etniche e religiose e anche ai gruppi progressisti e rivoluzionari in Turchia. Il governo dell’AKP, allo scopo di reprimere e contrastare qualsiasi  successo politico  dei Curdi che stanno costruendo un progetto politico radical-democratico in Siria, appoggia qualsiasi tipo di gruppo estremista, compresi il gruppo Stato Islamico, il Fronte al-Nusra, ecc.

Il motivo per cui la Turchia appoggia il Gruppo Stato Islamico

La rinascita dell’approccio neo-Ottomano del governo dell’AKP, che fondamentalmente implica il diventare una regione egemone, e oltre alle questioni socio-politiche della Turchia storicamente radicate, ha spinto il  governo verso una politica regressiva strategicamente programmata che alcuni indicano sia sull’orlo del collasso.

Prima della cosiddetta “Primavera Araba”  il primo ministro allora in carica,  Ahmet Davutoğlu, aveva introdotto una nuova, più aggressiva politica estera intesa a dominare la regione. Ma considerando se stesso come il “grande fratello” della regione, l’AKP credeva che la Turchia potesse essere uno stato egemonico per coordinare l’area insieme alle potenze imperialiste occidentali. In base a questo ragionamento, l’AKP ha attuato una politica a due facce. Da una parte, la Turchia è intervenuta nei paesi della regione attraverso una serie di organizzazioni islamiste, che andavano da diversi rami della Fratellanza Musulmana alle organizzazioni estremiste jihadiste, per rimodellare la formazione della regione nel loro migliore interesse,  dal 2007 in poi. D’altra parte, il governo dell’AKP tentava di costruire buoni rapporti con i poteri regionali allo scopo di far avanzare l’influenza economica e culturale della Turchia, che è stata definita come “soft power turco” dall’attuale   primo ministro Davutoğlu, nel suo controverso libro intitolato “Strategic Depth” (Stratejik Derinlik) , “Profondità strategica”. Questa politica del governo dell’AKP è stata  appoggiata dalle potenze imperialiste occidentali fino alla fine del 2012, poiché cercavano un’alternativa all’Islam politico radicale nel paese.

Tuttavia, per prima cosa gli sviluppi in Egitto e in Tunisia nel contesto della cosiddetta “Primavera Araba” e, secondo, la guerra civile in Siria, hanno cambiato moltissimo tutto per l’AKP nella regione e anche nei loro rapporti con le potenze imperialiste, rendendo visibile il loro impegno/collaborazione con le organizzazioni terroriste/jihadiste.

La Turchia ha eccessivamente appoggiato, facilitato e collaborato con vari gruppi jihadisti, compreso lo Stato Islamico, allo scopo di dare forma al futuro della Siria in linea con i suoi interessi. Per ironia, la collaborazione tra la Turchia e lo Stato Islamico è emersa  in parte grazie alla divisione delle potenze occidentali in schieramenti diversi riguardo alla guerra in  Siria. Durante il vertice del G20 tenutosi in Turchia, il presidente russo Vladimir Putin, che non vuole perdere il suo ultimo alleato nella zona del Mediterraneo, cioè Bashar Assad, ha citato circa 40 nazioni che sostengono  Daesh (ISIS), una delle quali, come il mondo ha appreso in seguito, è la Turchia.

Come detto sopra, la questione curda in Turchia è un fattore determinante per la politica estera della Turchia dalla formazione  della repubblica. Perciò la diplomazia turca è stata orientata a impedire categoricamente qualsiasi genere di progresso politico curdo. Questo si può osservare sia nel Kurdistan iracheno in seguito all’invasione statunitense dell’Iraq che nel Rojava (Kurdsitan Occidentale, Siria Settentrionale), dove i Curdi hanno ottenuto l’attenzione internazionale grazie alla loro eroica resistenza seguita da una vittoria storica contro il gruppo Stato Islamico a Kobanê. Dal momento che qualsiasi progresso politico dei Curdi altrove, catalizzerebbe la lotta dei Curdi nel Kurdistan Settentrionale (Turchia Orientale) contro la Turchia, il blocco dei Curdi a livello internazionale è diventata una delle massime priorità per lo stato turco.

A questo riguardo, il primo aspetto della resistenza curda contro lo Stato Islamico di fronte alla collaborazione tra la Turchia e tale gruppo estremista, è che il governo dell’AKP ha fatto una guerra per procura contro i Curdi del Rojava tramite il gruppo terrorista islamista allo scopo di bloccare o almeno di contenere un successo curdo in Siria. Il governo dell’AKP è anche responsabile degli attacchi dello Stato Islamico contro i Curdi e le persone di sinistra in Turchia e di non aver condotto un’effettiva indagine, malgrado tutte le prove. Lo Stato Islamico ha compiuto tre attacchi con le bombe: a Diyarbakir durante una manifestazione elettorale del partito di sinistra filo-curdo HDP; a Suruç, una città sul confine tra Turchia e Siria, e ad Ankara, durante una dimostrazione pacifista.

Il secondo aspetto è che     la resistenza curda nel  Rojava ha smascherato questa sporca collaborazione, specialmente durante la guerra a Kobanê. Infatti, la collaborazione della Turchia con i gruppi jihadisti e il loro utilizzo, specialmente contro i Curdi, non era iniziata con lo Stato Islamico e non era venuta fuori dal nulla. La Turchi l’ha fatto nell’ambito del suo approccio interventista al Medio Oriente che si può far risalire all’inizio del 2011 quando  appoggiava un altro gruppo jihadista, il Fronte Nusra, il ramo siriano di Al-Qaida che non è meno crudele del gruppo Stato Islamico. In seguito a una divisione interna nel Fronte Nusra, questo è stato rimpiazzato dallo Stato Islamico che fin da allora ha continuato a fare attacchi contro la terra curda liberata,  con l’aiuto del governo AKP. La collaborazione tra AKP e lo Stato Islamico continuerà fino a che uno avrà bisogno dell’altro. Ma c’è ora un equilibrio del terrore per la Turchia, creato dalla Turchia. Nel caso che questo paese interrompa la collaborazione con il gruppo Stato Islamico, e alquanto probabile che il gruppo terrorista gli  si rivolterà contro, dal momento che l’unica porta per le sue necessità logistiche è il confine turco.

In che modo la  Turchia appoggia il Gruppo Stato Islamico

La Turchia è in  collaborazione con lo Stato Islamico sia politicamente che ideologicamente e questa si espande in molti canali come è stato elencato in dettaglio

Da David L. Phillips sull’Huffington Post. Lo  Stato Islamico ha servito gli interessi turchi militarmente combattendo i Curdi, mentre il governo dell’AKP facilitava logisticamente e finanziariamente  la campagna omicida dello Stato Islamico. Il governo dell’AKP forniva anche equipaggiamento militare allo Stato Islamico. Tre camion carichi di armi si sono fermati nella regione di Adana il 19 gennaio 2014. Malgrado la smentita del governo, era chiaro che queste armi sarebbero state consegnate allo Stato Islamico. Secondo molti documenti venuti alla luce e in base alla copertura dei media, oltre a questi tre, ci sono stati molti altri camion di armi consegnate allo Stato Islamico, cosa confermata anche da video e foto fatte dai combattenti curdi dell’YPG (Unità di Difesa del Popolo)  e dell’YPJ (Unità di Difesa delle Donne). Inoltre il suolo turco era usato dai Sauditi per il trasporto di armi all’IS.

Il governo dell’AKP ha anche facilitato l’attraversamento del confine per i membri dello Stato islamico di recente reclutati, secondo un documento firmato dal ministro dell’Interno , Muammer Güler il 13 giugno 2014. E’ stato anche affermato dai media internazionali che il governo di Erdoğan  ha chiuso un occhio sulla “entrata per la jihad” attraverso il confine del pese con la Siria. Molti emendamenti ufficiali e domande nel Parlamento della Turchia proposti dai partiti di opposizione per avere una risposta ufficiale del governo riguardo alle facilitazioni per l’attraversamento del confine date ai jihadisti, sono rimaste senza risposta. Tra  molte di queste domande, il Membro del Parlamento del partito filo-curdo HDP, Ibrahim Ayhan, ha chiesto al ministro se il governo forniva rifugio ai membri dello Stato Islamico nel campo profughi di Akçakale.

Il gruppo dei combattenti  dello Stato Islamico, compresi i comandanti di alto rango, hanno ricevuto assistenza medica e sono stati curati negli ospedali delle città di confine della Turchia. Il giornalista turco Fehim Taştekin sostiene che il governo ha permesso l’acquisto e la vendita di petrolio proveniente dal territorio dello Stato Islamico. Inoltre, secondo altre fonti, alcuni dei membri della famiglia del presidente

Erdoğan, sono coinvolti nel commercio del petrolio dello Stato Islamico.

Nel trattare di questo, è fondamentale tenere a mente che un intervento militare internazionale non servirà a nulla se non al rafforzamento dello Stato Islamico e ad analoghi gruppi terroristi. Invece, appoggiare le forze di terra che combattono per la loro terra e per la loro libertà sarebbe del massimo rendimento.

Infine, essere di continuo solidali con l’esperienza unica  radical-democratica nel Rojava, al centro di una regione piena di violenza e di atrocità, è una responsabilità per tutto il globo e il modo migliore per andare avanti.

Yasin Sunca  è un attivista politico curdo e ricercatore indipendente. Seguitelo su Twitter @kurdeditir

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo”

 

Quando qualcuno esprime un concetto meglio di quanto io possa fare.

Nelle due o tre ore delle le ultime quarantott’ore che ho speso seduto di fronte al computer ho letto numerosi comunicati sugli attentati di Parigi e su ciò che vi ruota intorno. Avevo compilato una lista di comunicati e riflessioni di organizzazioni anarchiche di vari Paesi che pensavo di riproporre su questo spazio virtuale, poi mi sono imbattuto in uno (anzi due) testi pubblicati su un blog che leggo non dico spesso, ma almeno volentieri e ci ho ritrovato un pò quello che mi passa per la testa in questi giorni. Perchè ripetere allora con parole mie gli stessi concetti di fondo, quando qualcuno li ha già espressi peraltro stilisticamente meglio di quanto io possa fare? L’unica rimostranza che avrei da fare sugli articoli, chiamiamoli così, in questione, è che manca il benchè minimo ottimismo sulla capacità di reazione degli esseri umani che potrebbero, dovrebbero opporsi allo stato di cose esistente. Ma sarebbe un ottimismo motivato?

– “Non-elogio della Follia” e “Guerra santissima“, dal blog di Riccardo Venturi.

P.S: C’è un’altra cosa che continua a passarmi per la testa, non da qualche giorno ma da diversi anni, in svariate occasioni. È una citazione tragicamente attualissima attribuita a Benjamin Franklin, che paradossalmente mette in guardia anche da quelli come lui: “Chi rinuncia alla libertà per raggiungere la sicurezza, non merita né la libertá né la sicurezza”.

Terrorismo di Stato in Turchia.

Il 10 Ottobre scorso, durante una manifestazione per la pace dai contenuti antigovernativi indetta ad Ankara, capitale turca, sono esplosi due ordigni che hanno provocato una strage. Secondo le diverse fonti i morti sarebbero tra i 95 e i 128, i feriti tra i 165 e i 500 e più, tutti/e attivisti/e di organizzazioni politiche e sindacali di sinistra e filocurde. Tra i morti ci sono almeno due anarchici. Il governo turco ha accusato immediatamente, parole di Erdogan, “chiunque voglia minare l’unità e la pace nel Paese”, mentre il primo ministro Davutoğlu includeva in una lista di possibili sospetti anche una serie di organizzazioni curde e di estrema sinistra . Come accadde a seguito dell’attentato di Suruc, che costò la vita a 33 attivisti/e di area socialista, comunista e anarchica, il governo turco del partito filoislamico e reazionario AKP incolpa i fondamentalisti islamici dell’ ISIS, ne arresta qualche decina e contemporaneamente provvede a bombardare postazioni del partito dei lavoratori curdo PKK, proprio quando quest’ultimo si era impegnato a sospendere qualsiasi ostilità nei confronti dello Stato turco, anche in vista delle elezioni indette per il prossimo 1 Novembre.

La prima domanda che vien spontaneo porsi in questi casi è: cui prodest? Secondo alcuni opinionisti è improbabile che il governo turco sia il responsabile della strage di Ankara, mentre la tesi maggiormente accreditata è che si tratti di un’attentato ad opera dell’ISIS che intende destabilizare la Turchia colpendo al tempo stesso gli acerrimi nemici curdi. Una certezza è comunque l’appoggio (“moderato”, dicono alcuni) offerto finora dal governo turco alle milizie dell’ISIS: queste ultime, sentendosi abbandonate dopo la dichiarazione di guerra contro di esse, seminerebbero ora il terrore in Turchia. Un’altro aspetto, che va sotto la categoria di responsabilità morale, è la continua persecuzione effettuata dal governo di Ankara a danno della popolazione curda e il rifiuto di trattative diplomatiche con le organizzazioni curde che vorrebbero mettere definitivamente la parola fine ad un sanguinoso capitolo di storia che dura ormai da decenni. Anche il fatto che sulla libertà di riportare notizie che riguardano le indagini sull’attentato sia caduta ancora una volta la mannaia della censura di Stato è un segnale che riconferma il modus operandi autoritario e repressivo di Erdogan e del suo governo, deciso a qualsiasi costo a riconfermarsi alle prossime elezioni senza farsi sorpassare dal partito della sinistra moderata filocurda HDP, il cui leader Selahattin Demirtaş ha esplicitamente accusato il governo di essere responsabile della strage di Ankara. Di sicuro chi s’impegna con zelo a massacrare i/le manifestanti/e antigovernativi per le strade e a torturarli nelle prigioni, a  far crepare i lavoratori in miniera, a sbattere in galera i giornalisti e a massacrare civili curdi inermi radendo al suolo i loro villaggi non ha certo tempo da perdere nel garantire la sicurezza interna del Paese prevenendo attentati terroristici.

Il Kurdistan chiama: rispondiamo!

Le terre comprese tra Iran, Irak, Siria e Turchia abitate prevalentemente dalla popolazione curda sono da decenni sotto il fuoco incrociato della repressione dei diversi Stati ai quali ufficialmente appartengono le rispettive porzioni di territorio. La Turchia in particolare ha un conto in sospeso con i curdi: dopo aver tentato di assimilarli senza successo, facendo largo uso della più brutale violenza nei casi di reticenza o resistenza da parte della popolazione civile, avendo ancor meno successo nella lotta contro la guerriglia creatasi come conseguenza al totale rifiuto di soluzioni diplomatiche e pacifiche da parte del potere dello Stato turco, dopo aver giocato la carta dell’appoggio nemmeno troppo velato ai fondamentalisti islamici dell’ISIS ( o, per chiamarli con il termine dispregiativo più appropriato, Daesh), oggi finge di entrare in guerra contro i combattenti del califfato mentre in realtà bombarda le postazioni dei/lle resistenti curdi/e, che dal canto loro avevano di recente cessato qualsiasi ostilità nei confronti delle autorità turche. Allo Stato turco, fortemente centralista e apertamente autoritario, non va giù che in Kurdistan sia ormai in atto, da almeno un decennio a questa parte, un processo di autogestione comunale profondamente democratico, che coinvolge organizzazioni di base composte dagli/e abitanti di villaggi e quartieri delle città. L’obiettivo di questo processo non è quello di creare uno Stato curdo indipendente, bensì quello di autogestire le risorse comuni in modo orizzontale, secondo il principio della democrazia di base, per far fronte alle esigenze della popolazione di un’area geografica particolarmente povera e oppressa. Anche l’abbandono da parte del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) dell’ideologia marxista-leninista a favore di una concezione tendenzialmente socialista libertaria, simile a quella espressa nelle opere dell’anarchico statunitense Murray Bookcin, “padre” di concetti quali ecologia sociale e municipalismo libertario, ha avuto un ruolo importante nell’influenzare le prospettive di cambiamento sociale, economico e politico. Col passare del tempo sono stati creati nel Kurdistan “turco” collettivi e cooperative nel settore agricolo, edilizio, scolastico, sanitario, culturale ed artigianale, organizzazioni di base giovanili e femminili, realtà che si coordinano tra loro e che collaborano con le amministrazioni comunali “amiche” e disposte a sostenere lo sviluppo dell’autogestione, secondo la logica -sempre citando Bookchin- del conflitto Comune-Stato; si tenta un’approccio produttivo che esuli dalla logica capitalista, ancora relativamente poco sviluppata in quelle terre; si fa ricorso a comitati di mediazione e pacificazione per risolvere diatribe e far fronte al crimine, alle violenze private ed alle faide familiari; si creano regole proprie, comunemente decise, per aggirare quelle eteronome dello Stato centrale;  le donne si integrano, non senza dover superare grossi ostacoli ma in ogni caso con enorme successo, nei processi decisionali, si rendono economicamente indipendenti, imparano a difendersi dalle violenze e ad acquisire autostima e consapevolezza scardinando i residui della vecchia società patriarcale, divenendo il motore della rivoluzione sociale in corso- il tutto con un’approccio ecologista.  Di per sé è straordinario che questo processo di cambiamento, lento ma inesorabile, sia andato avanti fino allo scoppio del conflitto in Siria e all’aggressione terroristica di Daesh, ma è ancor più straordinario che tutto ciò vada avanti nonostante la guerra oggi in atto. Un processo simile coinvolge i cantoni autonomi curdi ufficialmente appartenenti allo Stato siriano, che implementano il confederalismo democratico in una situazione a dir poco proibitiva. I curdi e chi lotta al loro fianco al di lá di divisioni etniche o religiose, armeni, yazidi, assiri, aramei, arabi, turchi e turcomanni, cristiani o musulmani, aleviti o zoroastriani o atei che siano, necessitano di tutto il sostegno possibile nella loro lotta contro l’aggressione dei fondamentalisti islamici di Daesh e dei governi degli Stati che tentano di impedire la loro emancipazione. Ci sono momenti nei quali i dibattiti su aspetti teorici di un processo di cambiamento sono indispensabili e si può tranquillamente discutere sulla differenza fra “lotta di classe” e “lotta popolare”, fra abolizione della proprietà privata e uso comune di tale proprietà, fra abolizione dello Stato e appoggio alle istituzioni locali in chiave decentralista; ci sono invece momenti nei quali la  domanda che ciascuno/a di noi dovrebbe porsi urgentemente è: come possiamo appoggiare il cambiamento in corso, come possiamo sostenere la lotta dei curdi e delle popolazioni minacciate dai fondamentalisti islamici e dalla violenza militare dello Stato turco, come dare una mano a profughi e sfollati? Io avrei un paio di modesti suggerimenti, basati sulla mia esperienza personale di attivismo politico e su azioni tuttora in corso o svoltesi nei mesi passati in diverse parti del mondo. Suggerimenti forse vaghi, generici, alcuni più efficaci di altri, chissà, ma restare fermi a guardare non è un’opzione accettabile non dico per un anarchico/a, ma per chiunque conservi ancora un briciolo di umanità, di solidarietà, di sincero amore per la libertà. Inoltre penso che più si rafforza la solidarietà internazionale di chi ha a cuore la rivoluzione sociale libertaria e meno peseranno alla fine del conflitto gli aiuti “sbagliati” (per quanto sembrino ora decisivi almeno su un piano militare), quelli dei Paesi Occidentali sempre interessati al proprio tornaconto nazionale ed al controllo politico ed economico di intere aree geografiche a prescindere dalla volontà delle popolazioni che le abitano…. Pertanto: Che fare?

Informare ed informarsi:Risultati immagini per solidarity kurdistan donations

i massmedia mainstream riportano solitamente notizie e dichiarazioni  di fonte turca. Diamo voce a chi appoggia la resistenza curda, diffondiamo interviste, comunicati, video, aggiornamenti. Usiamo tutti i mezzi a nostra disposizione, soprattutto internet, ma non dimentichiamo la comunicazione diretta con le persone “in carne e ossa”. Spieghiamo ad esempio non solo quanto sia importante la lotta contro Daesh, ma anche e soprattutto chi sta lottando VERAMENTE contro i fondamentalisti islamici e che tipo di cambiamento è in corso nella società curda. Se possibile andrebbero organizzate conferenze e dibattiti pubblici con persone che hanno una conoscenza il più possibile approfondita della questione curda;

– Protestare e fare pressione:

Risultati immagini per we stand in solidarity with freedom fighters of Rojavain numerose città sono state organizzate proteste sotto le ambasciate e i consolati turchi, contro le politiche assassine del partito AKP di Erdogan, in solidarietà ai/lle combattenti curdi, contro il fondamentalismo islamico. E-Mail e lettere di protesta di massa indirizzate alle rappresentanze istituzionali turche, boicottaggi ben organizzati e ampiamente pubblicizzati, manifestazioni e presidi possono essere metodi di pressione efficaci e danno la possibilitá di portere all’attenzione pubblica questioni altrimenti rimosse o manipolate dai massmedia:

-Raccogliere fondi:

da diversi mesi a questa parte sono state messe in campo svariate iniziative atte a raccogliere denaro necessario per la ricostruzione delle infrastrutture, per procurare beni di prima necessità agli/lle sfollati, per la sanità, per sostenere progetti e associazioni locali esistenti anche da prima dello scoppio guerra, ma anche per acquistare armi necessarie all’autodifesa della popolazione. Sono stati organizzati concerti, cene benefit, tombole, mercatini, collette, sono state prodotte e vendute magliette che oltretutto servono anche a comunicare un messaggio chiaro e a stimolare la curiositá e un possibile dialogo con le persone che incontriamo quotidianamente. A volte basta davvero poco, anche solo un barattolo con su scritto “offerte per i/le combattenti curdi in Rojava” durante una festa. I fondi possono essere destinati a una o più organizzazioni che operano sul posto e usati per diversi scopi, nel dubbio contattare gruppi organizzati di persone che si recano in Kurdistan o che hanno contatti diretti con le persone del posto. Per chi avesse bisogno di qualche esempio dalla Germania può cliccare qui.

Risultati immagini per spenden für rojava

“Turchia: Bombe di Stato contro la ricostruzione di Kobanê”

Fonte: Umanità Nova.

kurdish-women-fighters-4

 

 

 

La mattina di lunedì 20 luglio a Suruç nel giardino del centro culturale Amara è esplosa una bomba durante la conferenza stampa dell’organizzazione turca Federazione delle Associazioni dei Giovani Socialisti (SGDF). Circa 30 persone sarebbero rimaste uccise nell’esplosione, oltre 100 giovani invece sarebbero feriti, di cui alcuni in gravi condizioni. Tra le vittime, oltre a numerosi giovani militanti socialisti, vi sono anche due compagni anarchici, entrambi di 19 anni. Evrim Deniz Erol e Alper Sapan, quest’ultimo faceva parte del gruppo Iniziativa Anarchica di Eskişehir ed era obiettore di coscienza al servizio militare.

Suruç è una cittadina a maggioranza curda in territororio statale turco, che si trova a ridosso del confine con la Siria ed è base per tutte le azioni di solidarietà rivolte verso Kobanê, che dista solo pochi chilometri. Per questo circa 300 membri del SGDF si trovavano presso il centro culturale per una conferenza stampa in cui stavano denunciando la repressione attuata dal governo turco allo scopo di impedire che i giovani militanti passassero il confine per lavorare a progetti di ricostruzione della città. Quasi contemporaneamente un altro attentato a Kobanê, vicino al valico di frontiera di Mürşitpınar, verso Suruç, faceva ulteriori vittime tra le forze curde di autodifesa. L’attentato al centro culturale Amara viene per ora attribuito allo Stato Islamico, in ogni caso è chiaro che l’attacco risponde agli interessi di coloro che vogliono bloccare in ogni modo qualsiasi possibilità di cambiamento sociale rivoluzionario nella regione, a partire dal governo turco e dai suoi sicari. Per comprendere il contesto in cui è avvenuto questo attacco terribile, cerchiamo di ripercorrere gli eventi degli ultimi mesi.

Dopo le note vicende dell’assedio da parte delle milizie dello Stato Islamico alla città di Kobanê nell’autunno-inverno dello scorso anno, la situazione in Rojava è andata progressivamente modificandosi a seguito della liberazione della città, avvenuta nel Gennaio del 2015 per mano delle milizie curde YPG (Unità di Protezione del Popolo) e YPJ (Unità di Protezione delle Donne, milizia femminile) e delle altre forze che combattono al loro fianco.

Il Kurdistan in zona siriana (Rojava) è diviso in tre diversi cantoni. Nella zona nord orientale della Siria si trova il cantone di Cizire, quello geograficamente più grande e popolato. A nord ovest vi è invece il cantone di Efrin. Tra i due cantoni vi è quello di Kobanê. I tre cantoni sino al Giugno del 2015 hanno avuto degli ingenti problemi di collegamento, data la presenza di truppe dello Stato Islamico e di altri gruppi che bloccavano ogni possibilità di scambio tra le regioni.

I combattimenti nelle zone intermedie tra i tre diversi cantoni si sono difatti susseguiti ininterrottamente dal 2013 sino a oggi. Oltre ciò, non minore importanza ha avuto la chiusura ufficiale, predisposta dalla Turchia, di svariati valichi di confine con i territori controllati dalle forze curde. Azione che ha isolato ulteriormente le zone sotto il controllo dei curdi e che ha impedito ed impedisce anche oggi l’arrivo di qualsiasi assistenza ai territori martoriati dai continui attacchi dello Stato Islamico, bloccando a tempo indeterminato anche il flusso regolare di profughi in fuga. Va ricordato che nel periodo in cui le forze curde ancora non controllavano completamente alcune delle zone settentrionali della Siria, che allora erano nella maggior parte dei casi in mano a forze legate a gruppi islamisti che si sarebbero uniti successivamente allo Stato Islamico, lo stato turco tenne alcuni valichi di frontiera aperti a “tempi alterni”. Tale azione venne giustificata dall’esigenza di mantenere una continuità commerciale con il territorio siriano, aprendo e chiudendo, svariate volte e con violenza, l’accesso in Turchia ai profughi in fuga dagli scontri violentissimi tra varie fazioni. Attraverso questi valichi di frontiera sono transitati nel tempo rifornimenti per Al-Nusra e lo Stato Islamico. Non si è certo trattato di semplice negligenza nei controlli di frontiera da parte della Turchia, dal momento che il governo turco ha in numerose occasioni dimostrato il proprio sostegno a forze controrivoluzionarie come lo Stato Islamico sia in Siria sia all’interno del territorio turco, utilizzando formazioni paramilitari fasciste e religiose nella repressione dei rivoluzionari e dei militanti curdi.

L’atteggiamento del governo turco è sempre stato chiaro. Il confine sotto il controllo turco tra il paese anatolico e la Siria apre e chiude le sue porte in base all’utilità politica della situazione interna alla Turchia ed a quella del nord della Siria. Da un lato l’apertura e l’accoglienza apparente verso i profughi in determinati periodi dell’anno, dall’altra il blocco e la repressione violenta con la volontà d’interrompere ogni collegamento tra le due sponde quando la situazione politica nei due territori minaccia la stabilità politica del territorio turco. Al contempo i combattenti dello Stato Islamico attraversano tranquillamente il confine sotto gli occhi dei militari turchi. Un esempio lampante di tali politiche lo si è avuto con la repressione violenta esercitata dall’esercito turco e la Jandarma (polizia militare turca) durante l’assedio da parte dello Stato Islamico a Kobanê del 2014. Allora migliaia di persone in fuga dalla città, soprattutto curde, vennero duramente attaccate dalle autorità turche che ne stavano impedendo il passaggio. Fu di molti feriti e qualche morto il bilancio di quelle settimane.

Nel Giugno di questo anno, le YPG e le YPJ, hanno condotto un’operazione per tentare di riunificare il cantone di Kobane a quello di Cizire, cercando di liberare dallo Stato Islamico una delle città più importanti della zona settentrionale della Siria, Tall Abyad e la zona circostante.

La città di Tall Abyad, dopo la riconquista da parte delle YPG/YPJ della città di Kobanê, ha assunto per lo Stato Islamico un ruolo strategico e politico centrale. Tall Abyad difatti, conquistata dallo Stato Islamico nel Giugno del 2014, è rimasta sino a qualche mese fa, l’unico valico di frontiera nel nord est della Siria sotto il controllo dello Stato Islamico, permettendo ad esse di ricevere un regolare flusso di aiuti e combattenti provenienti dal territorio turco; il tutto come sempre sotto l’occhio accondiscendente dello stato turco.

Durante tutto l’arco del 2014, le milizie dello Stato Islamico hanno condotto nella zona un’ingente operazione di riassestamento demografico, minacciando di morte i curdi dell’area mediante un’operazione di allontanamento forzato dall’area. Durante l’estate del 2014 sono state molte le famiglie curde, turcomanne ed anche arabe che hanno abbandonato la zona per paura di ripercussioni.

Nel giugno scorso le operazioni delle YPG e delle YPJ hanno portato nel giro di qualche giorno alla liberazione della città di Tall Abyad. Durante lo stesso mese, in Turchia, si sono tenute le elezioni per rinnovare il parlamento ed eleggere il primo ministro della Repubblica, in un contesto politico nel paese fortemente conflittuale. Il partito di Erdoğan non è riuscito ad ottenere la maggioranza, mentre il partito a base curda HDP (Partito Democratico dei Popoli) ha conseguito più del 13% dei voti, entrando di diritto nel parlamento della Repubblica Turca. Questo è avvenuto nonostante il blocco di potere al governo, guidato dal partito conservatore-religioso AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), abbia tentato con ogni mezzo di ostacolare l’opposizione. Le elezioni infatti furono insanguinate da aggressioni contro attivisti curdi e dei partiti di sinistra, attacchi che culminarono con le bombe di stato ad Amed (Diyarbakir) il 5 giugno che provocarono 4 morti durante un comizio dell’HDP. L’esito delle elezioni, accompagnato dalle continue vittorie sul campo delle forze curde in territorio siriano e da un progressivo radicamento delle forze della sinistra rivoluzionaria in tutto il paese anatolico, hanno condotto il governo di Ankara ad aumentare la violenza della repressione interna.

Ankara non ha digerito la doppia sconfitta ed ha dichiarato, durante un incontro del Consiglio Nazionale di Sicurezza Turco (MGK), la decisione di implementare la sua presenza lungo il confine turco-siriano, in particolar modo in quei territori confinanti con le zone gestite dalle forze curde. Le dichiarazioni del MGK, presieduto dal Presidente della Repubblica Turca Erdoğan, si sono fatte molto dure, arrivando ad affermare che la Turchia “non permetterebbe mai la formazione di uno stato curdo lungo i propri confini meridionali”, ipotizzando la concretezza di un’invasione impellente da parte della Turchia in Siria. Tali affermazioni arrivano anche a margine delle accuse dello stesso Presidente Erdoğan nei confronti delle forze curde di aver perpetrato azioni di pulizia etnica nei confronti della popolazione araba e turcomanna di Tall Abyad. La stessa popolazione al quale lo stesso Erdoğan, tramite i fucili delle proprie truppe ed i gas delle proprie guardie, non aveva permesso l’attraversamento del confine durante gli scontri tra YPG/YPJ e Stato Islamico nei dintorni della città. Tale atto riprende il medesimo atteggiamento repressivo avuto nei confronti dei curdi di Kobanê nell’Ottobre dell’anno precedente, lasciando intendere una continuità d’intenti negli ultimi mesi.

Le dichiarazioni dell’MGK e la decisione di governo turco di prepararsi ad un’invasione della Siria, schierando un maggior numero di mezzi e truppe lungo il confine, sono arrivate lo stesso giorno in cui si è concluso l’attacco sferrato dallo Stato Islamico il 25 giugno a Kobanê .

Il 25 giugno, dopo l’esplosione di tre autobomba lungo il confine con la Turchia a Kobanê, circa un centinaio di combattenti appartenenti alle forze dello Stato Islamico, entrati in città prima che facesse giorno indossando divise delle YPG e dell’FSA, sferrano un feroce attacco rivolto soprattutto contro la popolazione civile. Dopo quattro giorni di battaglia, il 29 giugno finiscono i combattimenti nelle strade, ma appare subito chiaro, come afferma anche un portavoce delle YPG, che l’attacco dello Stato Islamico non aveva certo lo scopo di occupare e controllare la città di Kobanê o anche solo alcune zone di essa. Si trattava invece un attacco suicida collettivo con lo scopo di uccidere il maggior numero di civili. Infatti alla fine dell’attacco si contano 223 morti e 300 feriti tra i civili, uno dei più gravi massacri compiuti dallo Stato Islamico in Siria.

Sia le forze curde di Kobanê sia il governo siriano hanno affermato che le autobomba venivano dal territorio turco e che avevano quindi attraversato i valichi di frontiera controllati dallo stato turco. Inoltre Figen Yüksekdağ, cosegretaria dell’HDP, ha dichiarato che il governo turco ha supportato per anni lo Stato Islamico e il massacro è parte di questa politica di supporto.

Probabilmente il governo turco voleva che l’attacco a Kobanê servisse a dimostrare che le forze riunite attorno alle YPG/YPJ non erano capaci di controllare la città e soprattutto di proteggere i civili, e che potesse quindi rafforzare la presa di posizione dell’MGK riguardo alla “pulizia etnica” antiaraba a Tall Abyad contribuendo così a giustificare un eventuale intervento di terra in Siria o comunque l’invio di ulteriori truppe lungo il confine.

È ancora troppo presto forse per parlare di un cambio di strategia della Repubblica Turca nel conflitto, anche perché il fatto che dalle elezioni di inizio giugno ancora non sia stato insediato un nuovo governo e tuttora siano in atto le consultazioni per trovare una maggioranza, rende incerta la situazione politica interna alla Turchia. Sembra ad ogni modo che dopo la liberazione di Tall Abyad abbiano iniziato ad assumere un peso maggiore quegli elementi ai vertici dell’establishment turco che vogliono un intervento militare diretto in Siria contro la popolazione curda e le forme di organizzazione sociale che si sta dando in Rojava.

Le accuse rivolte dall’MGK e dallo stesso Presidente della Repubblica Erdoğan alle forze curde sono quindi da interpretarsi fondamentalmente come propaganda a sostegno della linea politica e militare che il governo turco conduce nel conflitto.

Tuttavia la giusta opera di demistificazione e la lotta contro la propaganda del governo turco non deve portarci ad ignorare o rifiutare la realtà della guerra. In questo conflitto, l’intervento diretto e indiretto delle principali potenze mondiali e regionali, che inviano armi e combattenti, bombardano e cercano di spartirsi il territorio e le sue risorse, porta ad una recrudescenza della violenza tipica della guerra imperialista. In questo contesto, anche per chi combatte per difendere una prospettiva alternativa al dominio imperialista e capitalista può essere facile cadere nella trappola della guerra, commettendo eccessi o comunque perdendo di vista il fine per il quale si lotta.

Ignorare i rischi che si presentano in una situazione di guerra come questa può portare ad una sconfitta non solo militare, ma anche e soprattutto politica. Una sconfitta politica può assumere anche la tragica forma dell’abbandono della prospettiva rivoluzionaria per ottenere una vittoria militare grazie al sostegno di quelle potenze interessate all’instaurazione di una forma di governo disponibile a non mettere in discussione gli interessi degli stati e del capitalismo globale nella regione. Questo, ancor più di una disfatta militare, costituirebbe una tragedia per la popolazione che nella Rojava sta cercando di darsi gli strumenti per un cambiamento sociale in senso rivoluzionario, perché bloccherebbe adesso e per gli anni a venire ogni prospettiva di reale liberazione sociale, ripristinando le vecchie condizioni di sfruttamento ed oppressione e creandone di nuove.

Per ora il protagonismo della popolazione nella sua pluralità, la presenza radicata di gruppi rivoluzionari, l’autodifesa popolare e la mancanza di un governo dotato di apparati repressivi hanno reso possibile l’inizio di un processo rivoluzionario.

Solo facendo leva su questi punti di forza è possibile vincere questa lotta sul piano politico, senza cedere ai ricatti delle potenze e senza cadere nelle trappole della guerra.

In questa prospettiva è fondamentale la questione della ricostruzione di Kobanê e della Rojava. Perché oltre al bisogno di aiuti immediati, di ricostruire infrastrutture, case ed ospedali, c’è anche bisogno di discutere di come dovrà essere la città, di come ricostruire la società, su quali basi. Ci sono chiaramente diverse posizioni e differenti progetti, da una parte ci sono speculatori che aspettano di fare l’affare del secolo, mentre dall’altra ci sono rivoluzionari che vogliono far sorgere dalle macerie una società libera dalla proprietà privata.

In questi mesi si sta avviando un’ampia campagna per la ricostruzione di Kobanê. Oltre all’appello internazionale lanciato dal KRB, il tavolo per la ricostruzione della città, vi sono campagne e progetti specifici portati avanti dalle forze politiche che hanno sostenuto fino ad oggi la resistenza.

Queste iniziative sono tutte orientate a dare alla ricostruzione un forte senso politico; i lavori infatti non saranno affidati alle multinazionali o ai grandi speculatori, ma sarà organizzata e gestita attraverso la partecipazione dei diretti interessati.

In questo contesto anche il movimento anarchico, in particolare il gruppo DAF (Azione Anarchica Rivoluzionaria) di Istanbul, radicato anche in Kurdistan, dà il proprio contributo specifico alla ricostruzione, nel senso della ricostruzione della vita, di una società nuova, libera, senza stati né classi.

Quanto sia importante la ricostruzione ed in particolare l’intervento dei gruppi rivoluzionari per sostenere il processo di trasformazione sociale in atto, è reso ancora più chiaro dalla ferocia con cui i militanti che si occupano dei progetti di ricostruzione vengono attaccati dal governo turco, dai suoi alleati e dai suoi sicari.

L’attentato esplosivo che ha ucciso i giovani militanti della SGDF a Suruç la mattina di lunedì 20 luglio è un colpo diretto ai gruppi rivoluzionari che sostengono la Rojava. Non è terrorismo indiscriminato ma un massacro mirato di militanti, che ha come scopo l’eliminazione fisica di giovani rivoluzionari e l’intimidazione nei confronti di tutte le altre forze che sostengono i progetti di ricostruzione. Le dichiarazioni di Erdoğan dopo l’attacco sono di fatto un’ulteriore minaccia di invasione della Rojava. Il Presidente della Repubblica Turca ha infatti affermato che l’attentato sarebbe la risposta alle recenti disposizioni di rafforzamento del controllo militare lungo il confine da parte dell’esercito turco.

La sera stessa della strage in molte città della Turchia si sono tenute manifestazioni, nella maggior parte dei casi la polizia ha attaccato i dimostranti e gli scontri si sono protratti nella notte.

Ad Istanbul migliaia di persone hanno marciato verso Taksim fino a quando la polizia non ha attaccato il corteo con lacrimogeni e proiettili di gomma. Ad Amed e Yüksekova ci sono stati durissimi scontri. A Suruç, dove la polizia era già intervenuta con i blindati subito dopo la strage, l’intervento repressivo contro i manifestanti nel tardo pomeriggio ha provocato numerosi feriti.

Dopo questi fatti è ancora più importante appoggiare la ricostruzione della città di Kobanê, sostenendo gli anarchici del DAF e tutte quelle forze che contribuiscono ad uno sviluppo del processo che in quella regione sta aprendo la strada alla rivoluzione sociale.

Giacomo Sini

Dario Antonelli “

“Ecos del desgarro”: un documentario sulla rivoluzione siriana.

“Ecos del desgarro” (Echi dello strappo o Echi della ferita), un documentario in spagnolo, inglese e arabo realizzato dal collettivo libertario spagnolo La Cámara Negra, racconta lo scoppio e gli sviluppi dell’attuale rivoluzione in Siria attraverso le parole ed il materiale audio e video di attivisti/e politici/che in esilio in Turchia.

Si scrive tragedia, si legge massacro.

“Coloreremo il mare con il vostro sangue”, minacciavano i jihadisti dell’ ISIS lo scorso Febbraio in uno dei loro deliranti video rivolti all’Italia. A tingere il Mar Mediterraneo non è però il sangue degli italiani, ma quello di migliaia di disperati/e partiti/e su imbarcazioni di fortuna dalle coste del Nord Africa, che finiscono spesso per perdere la vita nel tragitto. Due giorni fa, di fronte a più di 900 migranti vittime dell’ennesima tragedia della disperazione, massmedia e politici di tutta Europa fanno a gara nel proclamare il proprio sdegno e nell’individuare cause e soluzioni per evitare che certi drammi si ripetano in futuro. Fatta la somma delle dichiarazioni che vanno per la maggiore, provenienti da diverse istituzioni e rappresentanti politici e governativi, il messaggio potrebbe suonare all’incirca così: “servono più fondi e mezzi per rendere sicuro il Mar Mediterraneo, le politiche di accoglienza dei rifugiati richiedenti asilo vanno migliorate, va combattuto il traffico di esseri umani e puniti più severamente gli scafisti, le persone che fuggono verso l’Europa vanno aiutate a casa loro”. Lo sciacallaggio degli scafisti e la minaccia dell’ISIS e dei conflitti locali come cause, gli aiuti allo sviluppo per i Paesi fonte di emigrazione e il pattugliamento marittimo come soluzioni…Tutto qui? Di quei 900 esseri umani periti in mare nel tentativo di raggiungere l’Europa, molti provenivano da Iraq e Afghanistan, Paesi invasi e devastati da guerre imperialiste scatenate da potenze occidentali per puri interessi economici e strategici. È vero che molti fuggono dalle violenze perpetrate da gruppi fondamentalisti islamici, ma è indispensabile ricordare che, prendendo l’esempio della Nigeria, Boko Haram è un problema recente, mentre a devastare ambiente ed economie locali e a spargere il terrore sono da decenni le compagnie petrolifere che rapinano i/le nigeriani/e delle ricchezze della loro terra, fomentando guerre locali e foraggiando regimi autoritari, mettendo a ferro e fuoco i villaggi che si oppongono all’avvelenamento della terra ed alle condizioni di vita miserabili riservate ad ampie fasce della popolazione private delle più elementari fonti di sostentamento. Anche in Siria, mancando la benchè minima volontà da parte delle potenze interessate “a distanza” dal conflitto di risolverlo con la dipolomazia, gruppi come l’ISIS hanno avuto la possibilità di rafforzarsi ed espandere il proprio raggio d’azione grazie al sostegno delle potenze occidentali, che ancora fino a poco tempo fa appoggiavano quest’organizzazione in chiave anti-Assad. A far fuggire tante persone dai loro luoghi di origine sono perciò conflitti, dittature e disastri economici che hanno spessissimo origine nella volontà da parte degli Stati “ricchi” di mantenere ed espandere le proprie ricchezze ed il proprio dominio. D’altra parte, al di là dell’ipocrisia e della retorica dei politicanti europei, di fronte a crescita, competitività, espansione sul mercato, produttività, aumento del prodotto interno lordo, le vite umane contano ben poco, specialemnte se sono quelle di abitanti di Paesi “poveri”. Aiutarli a casa loro dovrebbe significare lasciarli in pace, liberarli dalla morsa delle multinazionali, del debito, delle occupazioni militari, dalla devastazione del territorio, dalle dittature per procura e dai gruppi di mercenari, ma tutto ciò è impensabile per le potenze occidentali. Fuggiti/e verso l’Europa, i/le migranti che sopravvivono al viaggio e agli aguzzini che glielo organizzano devono vedersela con la burocrazia, col razzismo statale e con quello di quei/lle cittadini/e europei/e che temono di perdere i loro privilegi o i loro diritti per mano dei/lle nuovi/e arrivati, non rendendosi conto che i diritti li si conquista con la lotta unitaria di tutti/e gli/le oppressi/e e sfruttati/e e li si perde quando ci lascia dividere da chi ha interesse a dominarci per poterci meglio sfruttare. Ed è proprio lo sfruttamento, il più brutale, che attende gli/le immigrati/e che riescono a rimanere nel vecchio continente. Manodopera a basso costo che esegue le mansioni più logoranti, faticose e pericolose in cambio, nel migliore dei casi, di una scarsa remunerazione e senza la possibilità di far valere i propri diritti legali. Ci sono però una minoranza di immigrati/e che hanno ottimi titoli di studio, esperienza lavorativa in settori particolari: questi servono all’economia “emersa”, pertanto sono ufficialmente i benvenuti ed anche i politici neoliberisti e della destra moderata li accolgono volentieri. Gli/le altri/e vanno bene come carne da macello, capri espiatori, bassa manovalanza, argomenti di bassa lega per partiti e movimenti razzisti, fonte di guadagno per organizzazioni legali e criminali, valvola di sfogo per frustrati e ignoranti incapaci di ribellarsi contro chi è veramente causa della miseria delle loro vite. E pensare che chi fugge verso la Fortezza Europa cerca solo una vita normale. Forse non tutti/e immaginano che ad aspettarli/e ci sia proprio la normalità, con le fauci spalancate, pronta a sbranarli.

Sembra passato un giorno dal 1915…

Risultati immagini per notizie turchia

La foto qui sopra, diffusa nelle ore scorse sui cosiddetti social networks e in seguito ripresa dai massmedia, mostra uno dei due appartenenti all’organizzazione marxista-leninista turca DHKP-C che tiene in ostaggio, puntandogli una pistola alla tempia, il procuratore Mehmet Selim Kiraz nel suo ufficio all’interno del palazzo di giustizia ad Istanbul, dove i due giovani armati hanno fatto stamane irruzione. Kiraz era l’incaricato che indaga sull’uccisione da parte della polizia del 14enne Berik Elvan, colpito nel Giugno 2013 da un candelotto lacrimogeno durante le proteste di Gezi Park. Berik non era coinvolto nelle proteste, a quanto sembra stava andando a comprare il pane e si era trovato per caso nel mezzo degli scontri; entrato in coma, il ragazzo morì dopo oltre nove mesi e il suo omicidio rimane tuttora impunito visto che la “giustizia” non è riuscita ad appurare l’identità del poliziotto che lo ha ucciso. Quello che però la “giustizia”, il governo di Erdogan e la polizia sono riusciti a fare è stato reprimere duramente le proteste popolari scoppiate a seguito della morte di Berik, che si sono riaccese nuovamente l’11 Marzo di quest’anno in diverse città turche (Ankara, Istanbul, Eskişehir, İzmir, Tekirdağ…), durante le quali un’altra giovanissima ragazza è rimasta gravemente ferita da un candelotto lacrimogeno e giace anche lei in coma.

“Chiedono chi stia dando ordini alla polizia. Li ho dati io stesso”, disse Erdogan, all’epoca primo ministro (oggi presidente) turco, riferendosi alla morte di Berkin Elvan, da lui definito in seguito un “terrorista”. Una frase che mi riporta alla mente, per immediata associazione di idee, le parole del famigerato discorso pronunciato da Benito Mussolini dopo l’omicidio di Giacomo Matteotti. Responsabilità morale. Come quella di Erdogan, dei suoi scagnozzi e dei suoi sostenitori, non solo di fronte alla morte di Berik Ervan e al ferimento di un’altra ragazzina che forse mai si risveglierà dal coma e alle decine di recenti arresti durante le proteste, ma anche di fronte alla morte di quasi 300 minatori nel Maggio 2014 e alla repressione della rabbia di chi scese per strada chiedendo le dimissioni del governo. Solo pochi giorni fa è stata approvata in Turchia una legge che prevede che la polizia possa sparare addosso ai manifestanti irrequieti, mentre la legge sulla censura dei massmedia per motivi di sicurezza nazionale è stata applicata, secondo il quotidiano turco Hurryet, 150 volte negli ultimi 4 anni, inoltre gli scioperi vengono sospesi o proibiti facendo ricorso a strumenti nati durante la dittatura militare, com’è accaduto con lo sciopero dei metalmeccanici proclamato lo scorso fine Gennaio dal sindacato di ispirazione socialdemocratica BMI. Se a tutto ciò si aggiungono le politiche razziste e di pulizia etnica perpetrate da decenni nei confronti dei curdi, la chiusura delle frontiere per i rifugiati e perseguitati dall’ISIS e l’appoggio solo in parte velato fornito a tale organizzazione, non sembrano passati esattamente 100 anni da quando la Turchia iniziò lo sterminio degli armeni, un genocidio conclusosi con almeno 1 milione di morti. Cambiano gli attori sul palcoscenico, le circostanze storiche, ma oggi come allora siamo di fronte alla barbarie. E di fronte all’evidenza dei fatti ci si può solo chiedere ancora una volta chi siano i veri terroristi: i due ragazzi morti poche ore fa dopo un bliz delle forze speciali nel palazzo di “giustizia” di Istanbul assieme al giudice da loro tenuto in ostaggio, o quelli che sono disposti ad affastellare cadaveri su cadaveri e produrre miseria, violenza e abruttimento pur di mantenere il potere e portare avanti i loro allucinanti progetti nazionalisti ed autoritari? Qual’è il vero terrorismo, un gesto disperato compiuto nel tentativo di ottenere “giustizia” o le cause di tale gesto e di tutta la rabbia che è finora scoppiata e ancora scoppierà in Turchia?

Chiamata per un primo incontro anarchico del Mediterraneo.

Tunisian Anarchist Flag

Il gruppo libertario tunisino Le Commun Libertaire, la Fédération Anarchiste (FA) e l’Internazionale delle Federazioni Anarchiche (IAF-IFA) invitano a partecipare al primo incontro anarchico del Mediterraneo che si svolgerà in Tunisia dal 27 al 29 Marzo 2015. La proposta di questo meeting, al quale sono invitati/e delegati/e di organizzazioni anarchiche e antiautoritarie e tutti/e i/le compagni/e interessati/e, provenienti non solo dall’area mediterranea ma da qualsiasi altra zona geografica, nasce dalla volontà di creare un network per scambiare informazioni ed esperienze, creare progetti comuni e rafforzare la solidarietà reciproca anche alla luce della crisi economica e delle lotte popolari che hanno interessato e interessano tuttora diversi Paesi dell’Europa mediterranea, del Nord Africa e del Medioriente. Informazioni più dettagliate, così come il testo completo dell’appello in lingua inglese, possono essere letti qui. Eventuali aggiornamenti verranno postati in seguito anche su Black Blog!

Interviste sul (e dal) Kurdistan: dalla resistenza ad una nuova forma di società.

https://robertgraham.files.wordpress.com/2014/10/rojava.png

Spesso non è facile reperire informazioni attendibili e di prima mano sugli sviluppi della situazione in Rojava, sulla natura dei cambiamenti in corso nel kurdistan siriano e sulla situazione e le prospettive rivoluzionarie dei curdi in Siria. L’ultima buona notizia giunta nei giorni scorsi è che la città di Kobane è ora nelle mani delle forze di autodifesa popolare e le truppe dello Stato Islamico si sono ritirate, ma è necessario andare oltre i resoconti delle battaglie sul piano militare e le notize fornite dai media mainstream che ignorano volutamente l’esistenza di milizie popolari di fondamentale importanza come YPG e YPJ e non parlano dell’autogestione in chiave emancipatoria della comunità locali. Soprattutto negli ambienti anarchici/libertari/antiautoritari crescono attenzione e dibattito sulla genuinità della rivoluzione sociale in Rojava e c’è chi, come David Graeber, arriva addirittura a fare paralleli tra la rivoluzione spagnola del 1936 e l’attuale situazione nel kurdistan siriano.

https://linksunten.indymedia.org/image/130410.jpg

Le informazioni su quella che è la realtà quotidiana, le forme di organizzazione democratiche di base, il ruolo delle organizzazioni politiche, le prospettive emancipatorie, egualitarie e antiautoritarie, vanno cercate tra quelle fornite da chi vive nei territori interessati o da essi proviene o chi è stato in tempi recenti in quelle zone, resoconti attendibili e analisi verosimili dei fatti necessari per avere un quadro più completo della situazione in corso e per consentirci eventualmente di immaginare sulla base degli eventi in corso i possibili sviluppi futuri, ma anche per avere un punto di partenza nel caso si voglia contribuire concretamente ad aiutare, per quanto possibile, gli sforzi di chi combatte per quella che noi riteniamo essere una causa condivisibile. Ho deciso perciò di segnalare alcuni resoconti diretti e interviste che trattano gli aspetti dei quali ho appena accennato. Penso che le eventuali divergenze su alcuni fatti e opinioni riportati e qualche imprecisione (dovuta, immagino, a errori di traduzione o di mancata correzione dei testi) non intacchino la validità né l’importanza delle testimonianze:

Il resoconto di Zaher Baher dalla sua visita in Rojava (riportato sul sito di Barbara Collevecchio);

Intervista col Kurdistan Anarchist Forum sulla situazione in Iraq/Kurdistan (riportato sul sito di Barbara Collevecchio);

Intervista al comandante delle YPG a Serêkaniyê (dal sito dell’ onlus Ufficio di informazione del Kurdistan in Italia);

Intervista al giornalista Ozgur Amed (dal sito ZNET Italy);

Intervista a compagni e compagne del DAF (pubblicato su Umanità Nova);

Intervista al fumettista Zerocalcare al ritorno dal suo viaggio in Rojava (dal sito Il Becco del Tucano).