Libertà di satira (c’è poco da ridere).

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La vignetta che vedete qui sopra venne pubblicata nel Luglio del 2013 sull’ormai famosa (prima di due giorni fa molti di voi non l’avevano mai sentita nominare, ammettetelo) rivista satirica francese Charlie Hebdo. Il testo recita pressapoco “Massacro in Egitto. Il Corano è una merda: non ferma le pallottole”. Sarebbe un bell’omaggio alla libertà di satira se qualcuno ora titolasse “Massacro a Parigi. Charles Hebdo è una merda: non ferma le pallottole” con una caricatura di uno dei giornalisti morti crivellati di pallottole che tiene in mano una copia della rivista.*

Cattiveria? Ma la satira È cattiva. E deve invitare a riflettere, sempre. Non ci sono santi, profeti o divinità che meritino di essere risparmiati, né presidenti o ministri o personaggi pubblici o stati o sentimenti condivisi. Non vale se prima si tappa la bocca alla satira dei Guzzanti o di Luttazzi (sui quali posso avere parecchie riserve in quanto a opinioni personali e messaggi politici riportati nei loro spettacoli) e poi si solidarizza coi morti parigini. Non vale se ci si offende se qualcuno ironizza sulla sua sacra patria o religione cristiana o su altre futilità e poi ci si lancia in tirate da ubriachi al bar dello sport su quanto sia brutta e cattiva la cultura dalla quale proviene un fenomeno come quello del fondamentalismo islamico. Non vale se prima si censura e si querela e poi si piange come coccodrilli. E non vale nemmeno se ci si ricorda della libertà di espressione solo quando ad essere ammazzati sono giornalisti occidentali che scrivono su un giornale occidentale che sostiene in sostanza posizioni occidentali. Ma tutto questo avviene puntualmente e non ci vuole molto per immaginare cosa ancora avverrà: i soliti utili idioti dediti alla causa del fondamentalismo religioso stavolta hanno fatto un bel regalo al Front National e ai suoi omologhi un pò ovunque, mentre hanno condannato i musulmani di Francia e d’Europa a doversi confrontare con una nuova prevedibile ondata di ostilità e generalizzazione di stampo razzista che magari stavolta troverà nuovi adepti anche a “sinistra”, nel nome di libertà di espressione e laicità. Bel paradosso, c’è poco da ridere.

*Non è un’idea mia: ho ripreso una considerazione fatta da José Antonio Gutiérrez in un articolo pubblicato in lingua spagnola su Anarkismo, estrapolata però dal contesto originale.

Dove c’è Balilla c’è Casa (Pound?).

Al Signor Barilla, quello della pasta e dei biscotti, piace la famiglia tradizionale, pertanto nelle sue pubblicità ci saranno solo, come sempre, famiglie composte da mamma e papà sorridenti, anziani sani e di bella presenza, bambini belli puliti e ordinati, il tutto condito da paesaggi idilliaci e armoniosi. Non sia mai che la realtà faccia capolino negli stereotipi falsati voluti da certi spot commerciali! Niente anziani invalidi e bisognosi di cure, distrutti da una vita di duro lavoro e da amare delusioni; niente coppie separate con figli nati da diversi matrimoni, niente ragazze madri o ragazzi padri; nessun marito che, incapace di risolvere i propri problemi e frustrazioni lottando contro ciò che lo fa soffrire, si accanisce usando violenza contro moglie e figli. Nella visione distorta proposta da spot in stile Mulino Bianco non c’é posto per una realtà fatta di disagio, problemi lavorativi e abitativi, difficoltà economiche, diversità: viva la famiglia tradizionale, quindi, anzi viva l’immagine ideale di ciò che la famiglia tradizionale non è mai stata. Non a caso le notizie di cronaca intervallate da suddette idilliache pubblicità ci parlano ogni giorno di padri di famiglia che “impazziscono” e ammazzano consorte e prole, di abusi sessuali nei confronti di minori compiuti da parenti prossimi, di separazioni e divorzi a colpi di denunce, veleni e rancori di ogni sorta tra ex-coniugi che non risparmiano il coinvolgimento dei figli. Che bella quindi la famiglia partiarcale, quella nella quale per la donna c’é sempre un posto sicuro come figura centrale coronata dallo slogan “Kinder, Küche, Kirche”, un pò come la vergine madre di Gesù, disposta a soffrire ed a sacrificarsi mettendo da parte le proprie necessità in nome del destino e del volere superiore, brava a sfornare torte e figli, abile nelle faccende di casa, sempre lì a pulire e spadellare mentre il marito, dopo una dura giornata di lavoro, si ubriaca al bar con gli amici o la cornifica con qualcuna sbrigativamente definita “poco di buono” e “rovinafamiglie” (solo lei, l’uomo no, non sia mai!). Di fronte all’immagine dello scontro frontale tra le cazzate della famiglia perfetta usata per vendere pasta e biscotti e la realtà dello sfacelo della famiglia tradizionale crollata sotto il peso delle proprie contraddizioni, dei mutamenti sociali e delle esigenze del capitalismo, preferisco un mondo nel quale le persone si amino liberamente e consapevolmente in modo sincero, rispettandosi a vicenda, senza ipocriti conformismi dettati dalla pseudomorale vigente. Preferisco accettare la diversità in nome della felicità del singolo e dell’arricchimento collettivo, in una società nella quale ognuno/a scelga la propria identità ed i propri ruoli senza forzature né coercizioni, ricercando la soddisfazione dei propri bisogni insieme agli altri e non a scapito degli altri.

Mi rendo conto, rileggendo quanto ho appena scritto, di non aver parlato espressamente di omosessuali. Questo dimostra che l’attaccamento di certi tradizionalisti alla famiglia patriarcale ha risvolti ben più ampi di quelli riguardanti solo le coppie formate da persone dello stesso sesso. Ciò dovrebbe far doppiamente riflettere, è una questione che ci riguarda tutti/e.

La Siria, i “buoni” e i “cattivi”.

Finora ho evitato di trattare su questo blog l’argomento del conflitto in corso in Siria. Ho infatti cercato col trascorrere de tempo di farmi un’idea precisa di ciò che stava accadendo in quel Paese, confrontando la mole di informazioni che ci vengono riversate addosso quotidianamente dai massmedia e sul web, anche da fonti di cosiddetta controinformazione, prima di esprimere un qualsivoglia giudizio. Ora che si parla apertamente di intervento militare da parte degli USA e dei suoi alleati mi sento di esporre brevemente le conclusioni alle quali sono giunto finora.

Nel Dicembre del 2012 ho ricevuto per posta un opuscolo informativo dell’associazione “Adopt a Revolution”, che mi invitava a sostenere economicamente i comitati rivoluzionari siriani. Tali comitati sono nati dal movimento di protesta contro l’attuale governo di Bashar al-Assad, con l’intento di rovesciarlo in modo nonviolento per favorire una rivoluzione democratica -questo il sunto delle informazioni contenute nell’opuscolo, nel quale si parla anche di repressione nei confronti degli/lle attivisti, di escalazione del conflitto e dell’impossibilità di proseguire le lotte antigovernative a viso aperto e senza l’uso delle armi. Si parla anche di un codice di comportamento per il “libero esercito siriano” (nel volantino, in tedesco, “Freie Syrischen Armee”), che numerosi gruppi dell’esercito ribelle si sono impegnati a rispettare per evitare saccheggi ed esecuzioni sommarie, escludendo dal discorso i gruppi combattenti formati da fondamentalisti islamici: nelle intenzioni, questo codice di comportamento servirebbe anche a porre le forze combattenti che lo sottoscrivono sotto controllo civile. A queste informazioni si aggiungono quelle delle quali ero venuto a conoscenza mesi prima, tra cui un comunicato unitario di anarchici russi e siriani  ed un’altro comunicato di un anarchico siriano, entrambi schierati nettamente dalla parte delle forze antigovernative. Ora, il fatto che esistano ribellioni in atto contro un qualsiasi governo (a mio parere meno spazi di libertà e dialogo lascia un governo, più la ribellione è urgente), spinte dalla genuina volontà della popolazione nel voler porre fine a forme di autoritarismo ed oppressione politica e sociale può solo incontrare la mia simpatia ed approvazione. Il problema è che nel caso della Siria la situazione è molto più complessa di quanto si possa pensare.

Innanzitutto la posizione geografica del Paese è fondamentale sullo scacchiere internazionale per gli equilibri del Medio Oriente- e non solo. Conseguenza di ciò, come faceva notare il docente universitario Massimo Ragnedda in un suo vecchio articolo online, è anche una vera e propria guerra psicologica di (dis)informazione: gli Stati che vedrebbero di buon occhio la rimozione dell’attuale governo siriano (USA, Unione Europea, Israele, Turchia, Arabia Saudita) non hanno fatto altro che diffondere informazioni manipolate e di parte sul conflitto in corso, attribuendo i peggiori crimini alle forze governative, presentando i guerriglieri come martiri democratici e la popolazione civile vittima di terrorismo da parte delle forze armate di Assad, raccontandoci di attacchi chimici contro civili, città distrutte e rifugiati. Guarda caso, anche la carta della paura nei confronti di nuove ondate migratorie alle porte della fortezza Europa nel bacino del Mediterraneo è stata giocata senza scrupoli di sorta dai massmedia “occidentali”. D’altro canto, dagli Stati in buoni rapporti con Assad (Russia, Cina, Iran) provengono notizie ben diverse sul conflitto in corso, che mettono ad esempio in dubbio l’uso di armi chimiche da parte delle forze armate governative, attribuendolo piuttosto alle forze ribelli indicate come un coacervo di Alquaedisti che, per destabilizzare la regione e spodestare il governo laico e moderato di Assad, commettono ogni sorta di nefandezza anche contro i civili che non sostengono la loro lotta. Quel che è certo è che l’attuale regime siriano, il cui partito Ba’ath è in carica dal 1963, si regge sul potere dell’esercito e di 14 diversi servizi segreti spesso in concorrenza tra loro, ha una natura nazionalista e militarista e difende sostanzialmente gli interessi e i privilegi della minoranza religiosa degli alawiti (sciiti). È altrettanto chiaro che tra i ribelli, foraggiati opportunisticamente anche da potenze straniere, vi sono milizie armate salafite e wahhabite, ovvero composte da elementi islamici fondamentalisti e reazionari, che non si mettono problemi nel liquidare gli alawiti (e non solo!) nel più brutale dei modi. È questa la triste realtá dei fatti con la quale si deve fare i conti prima di esprimere opinioni affrettate e prendere posizione per l’uno o l’altro fronte. Eppure, tra le forze politiche della cosiddetta sinistra radicale (sic!) c’è chi sembra avere le idee chiare: i partiti stalinisti siriani e quelli europei (almeno in Francia e Belgio) stanno dalla parte del regime di Assad, considerato antiimperialista; i trotzkisti dal canto loro si schierano con i ribelli e vedono i fondamentalisti islamici come possibili alleati. Al di fuori di questo pattume, gli anarchici non sembrano avere idee precise, perchè se da un lato ancora non ne ho sentito uno che supporti in qualche modo il governo siriano, dall’altro non tutti sostengono il fronte antigovernativo, inquinato da interessi esterni e composto da forze troppo eterogenee che spesso hanno nulla a che fare con ideali di libertà, emancipazione e uguaglianza.
Si deve anche prendere atto di un’altra evidenza: il conflitto siriano è un conflitto ancora locare, ma la posta in gioco è a livello mondiale. I diritti umani non valgono una sega per le potenze interessate alla soluzione del conflitto a favore o contro il governo di Assad, queste nel sangue dei poveracci ci intingono il pane da tempi ormai immemori. Ogni mezzo è buono per portare acqua al proprio mulino, ai propri interessi geostrategici. A farne le spese sono coloro i quali in questa guerra crepano come mosche, uccisi dalle armi, siano chimiche o meno, delle truppe governative, o dalle rappresaglie di guerriglieri ben poco interessati a concetti quali democrazia o emancipazione, o quelli che -più fortunati?- si trovano a dover fuggire dal Paese dopo aver perso tutti i loro averi per finire in condizioni disastrose in qualche campo profughi. Il settarismo religioso ed etnico, alimentato soprattutto dagli Stati stranieri interessati a favorire l’una o l’altra fazione (creando divisioni soprattutto all’interno del fronte antigovernativo), precipita il conflitto in una dimensione che non lascia spazio a nessuno spiraglio per gli ideali tanto cari a noi anarchici. Un bel puttanaio, insomma, per dirla in modo tanto brutale quanto chiaro. Un intervento militare (che sembra ormai scontato, proprio quando gli ispettori ONU sono appena arrivati in Siria!) non farebbe altro che porre la parola fine non tanto alla violenza del regime di Assad, che verrebbe sostituita da altra violenza (basti pensare nell’immediato, visto che si parla “solo” di un possibile attacco aereo, al fatto che le bombe intelligenti sganciate dai deficienti non guardano in faccia nessuno, se qualcuno ricorda i bombardamenti NATO ai tempi del conflitto tra Serbia e Kosovo, tanto per fare un esempio, saprà a cosa mi riferisco), quanto a qualsiasi speranza residua di una rivoluzione in Siria. Al suo posto, solo un nuovo Stato devastato, colonizzato e privato della sua sovranità…e non sarebbe l’unico. Ma non finirebbe così, ne sono convinto, perchè l’obiettivo finale delle potenze occidentali e dei loro alleati in Medioriente è l’Iran. E se Russia e Cina assumono per ora un ruolo tutto sommato passivo nella vicenda siriana, non credo che farebbero lo stesso in caso di aggressione al loro alleato chiave mediorientale…

Rivolte in Brasile: ancora qualche articolo di controinformazione ed approfondimento.

Giusto ieri, durante l’intervallo della finale di calcio della Confederation Cup trasmessa in Germania dalla rete ZDF, un giornalista in diretta dalle vicinanze dello stadio riportava la notizia di una manifestazione, inizialmente pacifica, dalla quale sarebbe partita un’aggressione da parte di una decina di facinorosi ai danni della polizia, che avrebbe reagito con decisione disperdendo tutti i manifestanti. Il copione “maggioranza di manifestanti pacifici che per colpa di pochi violenti scatenano la repressione delle forze dell’ordine che fanno solo il loro lavoro per l’interesse della comunità” ci viene proposto dai massmedia in Italia ed altrove ad ogni occasione, salvo situazioni di comodo comunque raccontate in modo menzognero (vedi la rivolta turca di Gezi Park e Piazza Taksim), come dimostra quanto ho osservato su un canale “a caso” della tv tedesca, ma la realtà è diversa. Sul sito Contra-Info ho appena trovato un ottimo report (in inglese) sulla rivolta brasiliana, contenente osservazioni interessanti e numerosi video che parlano da se, smentendo le sciocchezze della propaganda massmediatica dalla quale siamo quotidianamente bombardati. Un’analisi efficace, pubblicata anche in italiano su Anarkismo, illustra cause ed obiettivi della rivolta, le conquiste seppur parziali finora ottenute, la strumentalizzazione delle destre, l’incapacità delle organizzazioni di sinistra e la prospettiva della lotta da un punto di vista anarchico: quello che le televisioni non mostrano o mostrano in modo distorto.

Un parco, sfumature e prospettive.

No, non ho deciso di scrivere un pezzo sulla pittura impressionista, come si potrebbe pensare leggendo il titolo qui sopra. Sto pensando a ciò che accade in Turchia da cinque giorni a questa parte: è scoppiata una rivolta estesa e pertecipata nata dall’esigenza di difendere il parco di Gezi a Istanbul, minacciato di distruzione per far posto ad un centro commerciale e ad una moschea. La polizia è “diventata” violenta e i manifestanti non sono rimasti a guardare, cosicchè al quinto giorno di proteste si contano tre morti e 2500 feriti (dato fornito dall’associazione dei medici turchi) tra i manifestanti, mentre il governo, per bocca del vicepresidente Bulent Arinc, lamenta il ferimento di 244 poliziotti a fronte di “soli” 64 manifestanti feriti. Potrebbe stupire il fatto che decine di migliaia di persone siano scese in piazza pronte a tutto per difendere un parco, ma ho come la netta impressione, leggendo alcuni approfondimenti sulla vicenda, che il tentativo di imporre  questa ennesima decisione contro l’interesse di gran parte della popolazione abbia rappresentato la classica goccia che fa traboccare il vaso: la speculazione edilizia, la marginalità, la precarietà, lo sfruttamento e la risposta violenta delle autoritá per nulla inclini al dialogo sono gli elementi principali che hanno creato l’esplosione alla quale ora assistiamo. Il fatto che il governo turco continui a minimizzare la violenza delle forze dell’ordine tentando allo stesso tempo di dividere i manifestanti in moderati ambientalisti ed estremisti violenti e destabilizzatori ( da rintracciare soprattutto, sempre a detta del vicepremier, nei partiti d’opposizione) non è nulla di nuovo. A me fa ridere (amaramente) il fatto che i telegiornali tedeschi parlino di abusi di polizia e sostengano che i manifestanti siano dalla parte della democrazia, quando ch vive in Germania dovrebbe sapere benissimo che le forze dell’ordine il 30 Settembre 2010 a Stoccarda, per sgomberare un parco difeso pacificamente anche da studenti minorenni e pensionati ha fatto ricorso a manganellate, spray al pepe ed idranti (questi ultimi anche contro persone arrampicate a diversi metri d’altezza sugli alberi, il che significa potenzialmente un tentato omicidio) provocando più di trecento feriti, uno dei quali ha perso la vista. Chi difendeva quel parco a Stoccarda lo faceva contro il progetto ferroviario “Stuttgart 21”, messo fortemente in discussione da numerosi cittadini per motivi ambientali, paesaggistici ed economici, ma anche perchè si trattava di un progetto deciso dall’alto a vantaggio degli interessi economici di alcune grosse imprese ed istituzioni senza consultare la cittadinanza. Da che parte stava in quel caso la democrazia? Non erano evidenti gli abusi di potere (che, non mi stancherò mai di ripeterlo, è già di per sè un abuso) e l’uso indiscriminato della violenza da parte degli apparati statali? I bei discorsi valgono solo se certi episodi accadono lontani da casa nostra e i “cattivi” sono i governi degli “altri”? Allo stesso modo mi chiedo cosa ne pensi il ministro degli Affari Esteri Emma Bonino, che giudica eccessiva l’azione delle forze dell’ordine in Turchia, della strategia usata dalle forze dell’ordine in Italia contro gli/le attivisti/e che da anni lottano per difendere le loro terra dal mostruoso progetto del TAV. Magari sarebbe opportuno rinfrescare la memoria a ministri e giornalisti, in Italia, Germania e ovunque, su cosa sia la violenza di Stato a prescindere dal Paese nel quale viene esercitata e su come la risposta popolare possa essere tenace e, perchè no, vittoriosa.

Can’t hack it.

Le notizie pubblicate ieri da diversi giornali riguardo l’operazione repressiva scattata in tutta Italia contro membri del movimento di hacktivisti Anonymous, che ha portato all’arresto di 4 persone e ad una decina di perquisizioni in diverse città (altri 6 sarebbero gli indagati a piede libero), non mi convince. Tutti gli articoli online che ho letto finora parlano infatti degli arrestati come di persone che avrebbero scatenato attacchi informatici contro siti istituzionali e di aziende non con motivazioni politiche, come invece è sempre stato chiaro nel caso di azioni firmate Anonymous Italia, ma per interessi personali: questi hackers avrebbero infatti, stando alle news dei massmedia, offerto consulenze a pagamento alle aziende ed alle istituzioni colpite per risolvere i disturbi da essi stessi causati. Vero? Possiblie? Nel dubbio, formulo quelle che mi sembrano le due ipotesi attualmente più plausibili. La prima è che alcuni hackers abbiano veramente, dopo aver compiuto attacchi agli obiettivi in questione, tentato di ricavare profitto personale proponendosi come soluzione ai problemi da loro provocati: un atteggiamento perlomeno ambiguo, se non del tutto da biasimare. La seconda ipotesi è che non basti agli inquirenti una semplice operazione repressiva contro quella che è a tutti gli effetti un’organizzazione informale e virtuale come Anonymous. Sapendo di non poter smantellare facilmente una struttura così evanescente, gli inquisitori passano ai massmedia asserviti informazioni false (i quattro arrestati diventano nelle parole dei quotidiani “il vertice italiano di Anonymous Italia”) per incutere timore e suggerire l’onnipotenza del sistema repressivo che avrebbe dato scacco matto all’ “organizzazione”, mentre al tempo stesso diffamano gli hacktivisti insinuando che essi non siano mossi da propositi politici bensì da interessi personali (il nome dell’organizzazione viene definito “marchio”, come se servisse a vendere un prodotto in qualche negozio, tanto per rafforzare il concetto di qualcosa legato al profitto e non a un ideale). Personalmente questa seconda ipotesi mi pare la più probabile, anche visti i tanti -troppi- precedenti. Intanto sul sito ufficiale di Anonymous Italia è gia apparsa una breve ma decisa dichiarazione sull’operazione repressiva. Come a dire, rivolti a chi vorrebbe mettere a tacere qualsiasi opposizione al sistema dominante: can’t hack it!

R/esiste.

Articolo tratto da Umanità Nova online:

” R/esiste

Grecia

Se si dovessero usare due parole per descrivere gli ultimi 15 giorni in Grecia, per gli anarchici una della due sarebbe “repressione”.
Lo stato greco, barcollante e sul punto di cedere su tutti i fronti ad ogni richiesta della troika e dell’estrema destra, pur di riuscire a mantenere lo status quo, ha dato il via ad un nuovo giro di repressione contro tutti gli esempi di resistenza attiva contro la la realtà che le classi dirigenti stanno cercando di imporre.
Repressione, contro i compagni arrestati per aver partecipato al gruppo rivoluzionario “Epanastatikos Agonas” (Lotta Rivoluzionaria) i quali sono stati condannati a pene illogiche: 86 anni a Nikos Maziotis e Pola Roupa, 87 anni a Costas Gournas.
Repressione, per i media alternativi del movimento; dopo le pressioni dell’estrema destra e del ministro della pubblica sicurezza, con un ordine giudiziario sono stati bloccati athens.indymedia.org, radio 98 fm, radio entasi.
Repressione, per gli immigrati °clandestini° imprigionati nel campo di concentramento di Corinto, i quali, dopo essersi ribellati alle continue angherie alle quali erano sottoposti dai guardiani-aguzzini ed aver deciso di iniziare lo sciopero della fame, hanno subito l’attacco delle “forze dell’ordine” con lacrimogeni, getti d’acqua e persino fucilate.
Repressione, contro gli abitanti di Ierissos, in Chalkidiki, dove interi paesi si battono contro la distruzione della foresta per la creazione di una gigantesca miniera d’oro; dove la notte tra il 9 e il 10 Aprile, due abitanti sono stati rapiti dalle loro abitazioni da agenti dell’antiterrorismo per essere arrestati per presunta partecipazione all’attacco contro i container della ELDORADO GOLD e la loro distruzione.
Ma l’altra parola, sicuramente sarebbe “resistenza”.
Resistenza, con la solidarietà ai compagni in carcere oppure in clandestinità.
Resistenza, con la solidarietà ai media bloccati e con tanta voglia di far sentire di nuovo la voce del movimento, di non lasciar vincere quelli che cercano di soffocare la verità. Perché la lotta deve essere multiforme.
Resistenza, per i detenuti al lager di Corinto, i quali continuano a domandare quello che è ovvio: essere trattati da esseri umani.
Resistenza, per gli abitanti di Ierissos arrestati, e non solo dagli anarchici, né solo verbale ma con i fatti: la notte stessa del loro arresto, i loro compaesani hanno dato fuoco alla stazione di polizia di Ierissos (precedentemente evacuata dai poliziotti per ovvio timore di rappresaglie da parte degli abitanti, tanto che per la furia di scappare i poliziotti hanno lasciato dietro pure delle armi…), ed il giorno seguente si sono recati in massa davanti alla centrale di polizia di Poligyros, dove erano provvisoriamente detenuti i due, per manifestare. E Sabato 13 Aprile, due grandi manifestazioni, una ad Atene (foto qui: http://www.social-revolution.gr/2013/04/13-2013.html) ed una a Salonicco, in solidarietà alla lotta contro le miniere.
Perché in questo momento, bisogna combattere tutti assieme, su tutti i fronti contemporaneamente, con ogni mezzo disponibile.

Giorgos,
Gruppo Comunisti Libertari, Atene

“Fermiamo la guerra in Mali”: comunicato della FAI.

Fonte: Anarchaos.

” Fermiamo la guerra in Mali! [Comm. Rel. Internazionali FAI]

http://federazioneanarchica.org/archivio/20130216cri.html

Fermiamo la guerra in Mali!

L’11 gennaio il governo francese ha dato inizio ad un’operazione militare in Mali. Ha dichiarato di intervenire per sostenere le unità maliane contro il terrorismo di matrice islamica che imperversa in quell’area e per difendere la popolazione dalle violenze. Qualche giorno dopo, il 14 e il 17, rispettivamente la Germania e l’Italia, attraverso i loro ministri degli esteri, hanno affermato di appoggiare l’attacco francese in Mali e di essere disponibili a offrire supporto logistico. Passano poche settimane e, all’inizio di febbraio il presidente francese Hollande “atterra” tra le sue truppe a Timbuctu, ripreso dalle telecamere delle TV internazionali, sottolineando che le milizie islamiche/tuareg sono in fuga e il Mali è quasi completamente liberato: “Sosterremo i maliani fino alla fine di questa missione nel nord – ha dichiarato – ma non intendiamo star qui per sempre”.

Una frase che deve essere interpretata in senso esattamente opposto se si allarga lo sguardo alla politica estera dei governi francesi degli ultimi anni.
Infatti, c’è perfetta continuità tra Sarkozy che bombarda la Libia e Hollande che bombarda il Mali.
Sin dal 2007, in Niger, si è sviluppato un movimento tuareg, e dopo quasi cinquantanni di rapporti esclusivi con la Francia,questo paese aveva di recente aperto a compagnie non francesi lo sfruttamento delle risorse minerarie.
Certo, si potrebbero evidenziare le contraddizioni di chi interviene militarmente, ora in difesa della popolazione, ora per togliere di mezzo il dittatore scomodo. Insomma un giorno si spargono i “semi” della democrazia, l’altro si sostengono le forze ribelli con soldi e armi. A volte capita che i nemici di oggi siano stati gli amici di ieri (durante l’attacco alla Libia, Francia e Gran Bretagna hanno fatto ampio uso degli islamisti per combattere le forze armate di Tripoli, poiché i separatisti della Cirenaica non erano interessati a rovesciare Mu‘ammar Gheddafi una volta che Bengasi fosse diventata indipendente).
La campagna di comunicazione massmediatica preferisce mostrare le folle festanti che sventolano la bandiera francese invece delle migliaia di profughi che si sono concentrati in pochi giorni presso i confini maliani. Il ritornello si ripete mostrando i danni che i fondamentalisti hanno provocato al patrimonio culturale, (la biblioteca di Avicenna e i mausolei di Timbouctou) sottolineando il divieto di ascoltare la musica o di vestirsi senza seguire i dogmi religiosi. La distruzione generata dai bombardamenti dell’aviazione, invece, non appare mai.
L’opinione pubblica occidentale si confronta con l’ennesimo conflitto in modo apparentemente indolore: la distanza che ci separa dagli scenari di guerra favorisce, infatti, un certo “distacco”.
Non dobbiamo, però, scordare che gli interventi degli eserciti degli stati alimentano il pericolo “terrorista” (i recenti fatti che hanno interessato l’impianto energetico di In Amenas in Algeria rappresentano un esempio lampante).
Gli effetti di queste politiche neocolonialiste, travestite da missioni umanitarie, si estendono, comunque, anche all’interno dei confini dei paesi europei grazie alle legislazioni speciali antiterrorismo che, in nome della “sicurezza” continuano a erodere gli spazi di libertà e costituiscono uno “strumento repressivo e politico pronto all’uso” per fronteggiare le forme più pericolose e crescenti della protesta sociale.
Esaminando più nel dettaglio l’intervento militare in Mali ci si rende conto dell’infondatezza delle motivazioni ufficiali e delle mille contraddizioni che ne scaturiscono.
L’esercito francese era, da tempo, pronto a intervenire; la richiesta d’aiuto del presidente golpista Dioncounda Traorè è stata solo il pretesto.
È’ impossibile credere che sia stata l’emergenza umanitaria a spingere l’Europa a intraprendere questa nuova guerra. L’Africa è vessata, da decenni, da miriadi di focolai di violenza e nessuna potenza occidentale se ne è mai seriamente interessata. Si dirà che in Mali ad aggravare la situazione c’è l’emergenza “terrorismo islamico”.
Non dimentichiamo, inoltre,il ruolo degli Stati Uniti,in questa guerra,che da decenni contendono alla Francia il controllo della FrancAfrique.
Significativo il fatto che circa tre settimane dopo l’intervento francese in Mali, gli Stati Uniti abbiano siglato un accordo con il governo di Niamey per l’installazione di una base militare statunitense ad Agadez, nel nord del Niger nella zona uranifera del paese.

Dobbiamo considerare questa “nuova” guerra come la prosecuzione naturale della campagna libica e renderci conto che, probabilmente, ci troviamo di fronte a una precisa strategia neo-coloniale di controllo politico del territorio, finalizzato allo sfruttamento delle risorse naturali e inquadrato in un’ottica di contrasto dell’avanzata dei capitali cinesi in Africa. La Cina, infatti, è il primo partner commerciale di Tanzania, Zambia, Congo ed Etiopia (dove il PIL cresce con una media del 5,2% l’anno, cifre impressionanti) e in molte zone vanta l’esclusiva sui diritti di estrazione delle risorse.
Il governo francese ha enormi interessi economici nell’area centro-nord africana e sta cercando, anche con mosse azzardate, di mantenere sotto la propria influenza quelle zone di interesse strategico per l’abbondanza di risorse minerarie ed energetiche.
Il Mali potrà diventare importante nel prossimo futuro, ma il Niger lo è già ora. Non può sfuggire che, poco oltre il confine sud-est del Mali, sono collocate le più importanti miniere d’uranio nigeriane. Il riferimento è alla miniere di Arlit ed Akokan da cui la multinazionale Areva ricava gran parte dello “yellowcake” destinato ad alimentare i 58 reattori nucleari francesi. Nella stessa zona è prevista l’apertura di quella che è destinata a diventare una delle più grandi miniere al mondo per l’estrazione dell’uranio, Imouraren. Non mancano poi l’oro e il petrolio. Quindi, un grande affare che lo Stato francese – “spalla” di multinazionali come Total e Areva (giusto per fare due nomi) non può lasciarsi scappare.
Non si può dimenticare che la politica energetica francese è fondata sull’energia nucleare, una scelta che ha radici nel passato perché direttamente legata alla necessità di rafforzare il proprio ruolo militare nello scenario geopolitico internazionale. Sappiamo bene che non c’è soluzione di continuità tra gli impieghi, cosiddetti, civili dell’energia atomica e quelli finalizzati alla costruzione di ordigni destinati a minacciare l’umanità. Una scelta di sistema che rende, nell’attuale contesto d’instabilità, difficile, per il governo francese, individuare fonti energetiche alternative. La disponibilità dell’uranio rimane, quindi, una questione essenziale almeno in una prospettiva di medio periodo.
Quando l’esercito francese tornerà in patria sarà solo perché il controllo della situazione sarà affidato alle armi amiche delle forze africane alleate con la Francia.
Non è un caso che le forze armate della CEDEAO (Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale) siano state, velocemente, schierate lungo il confine tra Mali e Niger. La necessità di “proteggere” le aree d’interesse minerario da una possibile espansione della rivolta è stata subito evidente.
La nostra epoca è già contraddistinta da crisi energetiche e difficoltà di approvvigionamento di materie prime e non c’è da stupirsi che il capitalismo mondiale stia cercando di correre al riparo, ancora una volta, per garantirsi, con ogni mezzo, una parte del bottino. Tutti noi sappiamo che la guerra e la finanziarizzazione dell’economia sono mezzi per movimentare repentinamente enormi capitali, per riorganizzare equilibri politici di governi, stati e confini nazionali non più funzionali al profitto di multinazionali e società finanziarie.

Nel vicino Niger, da 40 anni, Areva e le sue consociate estraggono l’uranio senza alcun rispetto per l’ambiente e per i lavoratori, gli abitanti vicini ai siti di Arlit e Akokan hanno pagato e pagano un prezzo altissimo in termini di salute e di morte, come risulta da studi indipendenti (CRIIRAD – ROTAB). I minatori di uranio sfruttati infatti, sono esposti a radiazioni ionizzanti nelle cave, nelle miniere sotterranee, nelle officine di lavorazione del minerale grezzo, ma anche nelle città e nelle loro case. In questa zona 35 milioni di scorie radioattive sono raccolte all’aria aperta sin dall’inizio dell’attività estrattiva. Grazie al vento gas radon e altri derivati considerati cancerogeni si spargono nell’ambiente. Ma l’Areva opera anche sul territorio italiano. Il trasporto di materiale irraggiato passa per il nostro paese verso l’impianto di la Hague dove si estrae plutonio (per le bombe) e produce il mox (un combustibile di riciclo con cui funzionano alcune centrali). In Mali è la guerra di sempre, di stato e capitale, dove sfruttamento e saccheggio ai danni della popolazione non conoscono confini nazionali!

Diffondere l’informazione contro l’ipocrisia del potere, rafforzare la consapevolezza per far crescere la voglia di giustizia sociale sono solo i presupposti per sostenere le lotte che in ogni parte del mondo devono liberare gli oppressi da vecchie e nuove schiavitù, economiche, militari o religiose che siano.
Solo attraverso l’internazionalismo, l’antimilitarismo e la solidarietà di classe possiamo da anarchiche ed anarchici fermare l’orda di questo ennesimo, nuovo e lurido conflitto.

Fermiamo la guerra in Mali!
Solidarietà a tutte le popolazioni colpite dalla guerra!

Commissione Relazioni Internazionali
della Federazione Anarchica Italiana”

Sull’attuale lotta per la difesa degli spazi occupati in Grecia.

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Villa Amalias, con i suoi 23 anni di storia il più longevo spazio occupato e autogestito di Atene, è finito recentemente nel mirino della repressione governativa per mano della quale ha subìto uno sgombero il 20 Dicembre del 2012. La scusa per scatenare la repressione nei confronti di una realtà anticapitalista, antiautoritaria e autogestita nel cuore di Atene è stata una retata antidroga, durante la quale la polizia sperava inoltre di trovare un vero e proprio arsenale di armi. Nonostante la delusione degli sbirri dopo la perquisizione dei locali, che ha fruttato solo il ritrovo di bottiglie di birra vuote e poco combustibile usato per il riscaldamento, il tutto prontamente trasformato dagli avvoltoi della stampa asservita in materiale per fabbricare molotov, sono stati arrestati otto occupanti presenti durante l’azione di sgombero (rilasciati poi cinque giorni dopo). La reazione dei/lle solidali non si è fatta attendere: numerose manifestazioni hanno avuto luogo nei giorni successivi in tutta la Grecia, inoltre ci sono state azioni dimostrative di solidarietà anche all’estero. Come se non bastasse l’azione repressiva del governo, il 22 Dicembre i neonazisti di Alba Dorata danno fuoco al centro sociale Xanadu nella cittá di Xanthi provocando ingenti danni materiali e mettendo in pericolo la vita degli/lle occupanti- il centro sociale viene attualmente ristrutturato. A seguito di una telefonata anonima che denuncia il commercio di “articoli illegali”, il 28 Dicembre le cosiddette forze dell’ordine operano arresti in un mercato di fronte alla facoltá di economia dell’ Universitá di Atene, occupano la facoltà e irrompono in alcuni locali autogestiti al suo interno, sequestrando tra l’altro il locale della radio anarchica „radio98fm“ che trasmetteva da lì da circa 10 anni.

Di fronte a queste aggressioni il movimento anarchico e chi con esso solidarizza non restano a guardare. Si susseguono le manifestazioni e le azioni dirette, tra cui il danneggiamento di alcune sedi dei partiti di governo PASOK e Nea Dimokratia e l’incendio di un tribunale ad Atene, fino ad arrivare alla rioccupazione di Villa Amalias la mattina del 9 Gennaio da parte di un centinaio di persone. La polizia reagisce con l’uso di lacrimogeni e l’arresto di 92 persone, mentre alcuni solidali nelle stesse ore occupano la sede centrale del partito di governo Dimar, subendo di conseguenza denunce e fermi. Nello stesso giorno viene sgomberato dalla polizia anche il centro sociale Skaramangá, attivo dal 2009, e sette persone presenti al suo interno vengono arrestate. Ancora una volta le azioni di solidarietà non si fanno attendere e, oltre ai cortei (il più numeroso dei quali, forte di 10mila partecipanti, si è svolto nella capitale greca il 12 Gennaio) ed agli attacchi simbolici contro i simboli del potere, si risponde con nuove occupazioni di sedi radio a Xanthi, Salonicco e Atene e con l’occupazione della facoltà di Economia ad Atene e di una sede del partito governativo Nea Dimokratia a Candia. E la lotta continua…

Uno dei comunicati tra i tanti diffusi a seguito dello sgombero di Villa Amalias e degli eventi successivi contiene a mio parere un’analisi semplice e al tempo stesso chiara sull’azione dello Stato, sulla sua vera natura. Parole pienamente condivisibili scritte da persone che di fronte alle manovre repressive degli apparati di potere non hanno la minima intenzione di arrendersi, compagni e compagne ai/lle quali va tutta la mia più sincera solidarietà.

“Atene: nuovo comunicato da Villa Amalias”, su Informa-Azione.

3 Dicembre: manifestazione No TAV a Lione (Francia).

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E visto che ci sono, prendo l’occasione per esprimere la mia solidarietà alle persone colpite nell’ambito dell’ultima operazione repressiva condotta contro il movimento No TAV. La violenza dello Stato, gli interessi di speculatori e profittatori, le menzogne di politicanti e pennivendoli vari non fermeranno la lotta per la difesa del territorio, in Val Susa e altrove. ORA E SEMPRE NO TAV!