La biblioteca-archivio anarchico di Vienna cerca sostenitori/trici.

La biblioteca-archivio anarchico di Vienna raccoglie e conserva dal 2010 libri, riviste, opuscoli sul passato e presente del movimento anarchico, sulle sue idee, sulla sua storia, e li mette a disposizione del pubblico interessato. Attualmente la raccolta conta circa 2500 libri e 420 riviste in diverse lingue (principalmente tedesco, inglese, francese, spagnolo e italiano) dall’inizio del XIX Secolo ad oggi. Finora circa un terzo del materiale è stato catalogato per il pubblico, inoltre esiste un progetto di digitalizzazione che permette di rendere gratuitamente disponibile il materiale su internet. La biblioteca organizza inoltre seminari, letture e mostre e cura contatti a livello internazionale con altre strutture simili. Per portare avanti un progetto simile occorre molto lavoro ed impegno, ma anche una base finanziaria stabile; l’entusiasmo non manca, ma servono fondi per pagare costi quali affitto dei locali, acqua, elettricità, riscaldamento, fotocopie, stampe, connessione a internet. Pertanto i/le compagni/e del progetto viennese si appellano a chi fosse interessato e ne avesse la possibilità per donazioni stabili mensili di 5, 10, 50 o più €uro, ma anche donazioni una tantum o in forma di libri o riviste legate al movimento anarchico. Per chi volesse/potesse contribuire per aiutare ad assicurare un futuro alla biblioteca-archivio di Vienna:

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“Non generalizziamo!!!”: giornate di riflessioni e pratiche su individualità, sessualità e ruoli di genere.

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Massimo Fini, “Il denaro ‘Sterco del demonio'”.

Massimo Fini, “Il denaro ‘Sterco del demonio'”Tascabili Marsilio, 1998 (quarta edizione 2008).

Il libro di Massimo Fini "Il denaro 'Sterco del demonio'"

Massimo Fini é indubbiamente un personaggio difficile da inquadrare nei classici schemi di pensiero o ideologici di “destra” e “sinistra”. Etichettato superficialmente da più parti come “fascista”, in realtà mostra idee poco convenzionali e abbastanza originali, solo in parte frutto di un’eventuale influenza di pensatori dell’estrema destra (vedi il famigerato Julius Evola). Di sicuro, per quanto mi riguarda, mi sento lontano per molti aspetti dal pensiero di Fini, tanto dal suo “elogio della guerra” all’antica o dalla sua difesa del patriarcato o dal suo antimodernismo esasperato e condivisibile solo per alcuni aspetti, quanto dal suo riproporre modelli economici e sociali che si richiamano alla tradizione medioevale europea e che non mettono in discussione concetti quali dominio, gerarchia e autorità. Devo però riconoscere che le sue analisi sono spesso brillanti e per nulla convenzionali, meritevoli di attenzione e, magari, potenziali fonti d’ispirazione come nel caso dell’opera in questione. “Il denaro sterco del demonio” infatti non é solo un’avvincente ricostruzione storica, economica e antropologica su come e quando sia nato il denaro e su come fossero organizzati sistemi economici nei quali la moneta era assente, ma anche e soprattutto una critica devastante e senza mezzi termini al denaro stesso, elevatosi a divinitá dei tempi moderni, una scommessa sul futuro -ovvero sul Nulla. Il denaro condiziona il nostro stile di vita, la nostra esistenza, impedendoci di pensare al presente mentre viviamo in sua funzione ed in funzione di un futuro sempre più lontano ed inafferrabile, ci impone un modello economico, politico e sociale fine a se stesso e non al benessere ed alla felicità dell’umanità, non crea ricchezza reale ma piuttosto sfruttamento. Staccatosi definitivamente col tempo dalla materia, reso ancor più “fantasma” dalle transazioni virtuali, il denaro ha raggiunto la sua perfezione metafisica, ma al tempo stesso si avvicina sempre più alla propria fine, capace solo di riprodurre se stesso teoricamente all’infinito, praticamente fino all’implosione del sistema che ha generato.

Interessante confrontare alcuni concetti chiave sul denaro espressi da Fini in questo suo saggio con le parole pronunciate da David Graeber (alcuni giorni fa ho recensito il suo “Critica della democrazia occidentale”) durante il People’s Economic  Furum nel 2008:

David Graeber, “Critica della democrazia occidentale”.

David Graeber, “Critica della democrazia occidentale. Nuovi movimenti, crisi dello Stato, democrazia diretta”, prefazione di Stefano Boni. Elèuthera, 2012.

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Una delle tesi centrali di questo breve saggio dell’antropologo statunitense David Graeber è che il sistema politico nel quale viviamo non sia realmente democratico. “Ha scoperto l’acqua calda!”, ho pensato nell’accingermi a leggere il libricino, curioso di scoprire quali fossero gli argomenti portati dall’autore a sostegno della sua tesi e cosa egli intendesse con il termine “democrazia”. Innanzitutto per Graeber i termini “anarchia” e “democrazia” sono sinonimi, interpretando quest’ultimo secondo la sua etimologia, “potere del popolo”, esercitato in modo egualitario attraverso processi decisionali collettivi e orizzontali. Un modello che poco o nulla ha a che vedere con la cosiddetta democrazia rappresentativa tanto sbandierata in Occidente, ma che nasce piuttosto tra le pieghe degli Stati e nonostante essi, in diversi tempi e luoghi. Le forme democratiche orizzontali ed autogestite delle quali parla Graeber si contrappongono alla presunta democrazia (tale solo nominalmente) sbandierata dal paradigma occidentalista, autoritaria e promotrice di diseguaglianze, impossibilitata a esistere senza uno Stato che detenga il monopolio della violenza. È proprio a causa della negazione sempre più evidente da parte del sistema dominante di forme reali di democrazia se queste forme vengono rivendicate da movimenti di critica radicale e lotta sociale – movimenti che Graeber affronta in questa sua opera purtroppo solo di sfuggita. In effetti “Critica della democrazia occidentale” è un libro fin troppo breve che richiede al lettore di approfondire altrove le tematiche trattate, ma sicuramente è un’ottima fonte di ispirazione, scritto con uno stile sempice ma capace di spiazzare per via degli argomenti sostenuti, un efficace approccio dal punto di vista antropologico ad un tema di vitale importanza sul quale, ora più che mai, è urgente riflettere senza i paraocchi imposti dalla propaganda del pensiero unico.

Gabriel Kuhn, “Soccer vs. The State”.

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Gabriel Kuhn, “Soccer vs. The State. Tackling football and radical politics”, PM Press. ISBN 978-1-60486-053-5

“Soccer vs. The State. Tackling football and radical politics” è l’ultimo libro (per il momento non ancora tradotto in italiano) scritto da Gabriel Kuhn, attivista anarchico ed ex calciatore semiprofessionista di origine austriaca. L’opera tratta il legame tra “il gioco più bello del mondo” e l’attivismo politico, le idee emancipatorie, il cambiamento sociale. Il calcio è al giorno d’oggi uno sport pienamente inserito nel contesto capitalista, una miniera d’oro per multinazionali e altre grandi aziende, fonte di reddito eccessivo per i pochi professionisti che lo praticano; tra le tifoserie, sugli spalti degli stadi, sembrano abbondare gli episodi di razzismo, sessismo, omofobia e violenza… Eppure questo sport é nato come gioco della classe lavoratrice, un gioco capace di unire le persone al di là di confini nazionali, etnici, di genere, creando nuove esperienze di condivisione, collaborazione reciproca e socialità non commercializzata. È il calcio nella sua forma moderna a rappresentare un distacco dalle radici popolari, ma molti/e tifosi/e, allo stesso tempo attivisti/e politici/che, si oppongono attivamente sia alla strumentalizzazione del calcio come veicolo di idee reazionarie, discriminatorie ed antiemancipatorie, sia alla sua sempre più smaccata commercializzazione che esclude dal pubblico proprio quelle fasce popolari che furono in passato all’origine della sua nascita. Gli esempi di pratiche emancipatorie veicolate dal gioco del calcio e di tifoserie che portano avanti discorsi e pratiche contro razzismo, omofobia, sessismo, violenza di Stato, commercializzazione e politiche autoritarie abbondano nel libro di Kuhn, corredato da interviste, immagini, aneddoti, testi tratti da volantini e pubblicazioni varie, che nonostante non manchi di evidenziare i lati oscuri nel mondo del calcio, fornisce allo stesso tempo informazioni e spunti per sviluppare pratiche e lotte emancipatorie al suo interno. Per chiunque voglia  continuare a prendere a calci un pallone mentre sogna un mondo migliore e si impegna a costruirlo insieme agli/e altri/e.

Anarh 2012: fiera del libro anarchico e festival in Slovenia.

L’organizzazione anarchica slovena FAO ha organizzato per i giorni 25 e 26 maggio di quest’anno per la seconda volta consecutiva una fiera del libro anarchico (“Anarh 2012”) , che vuole allo stesso tempo essere un festival e un’occasione di incontro e dibattito fra diverse realtà anarchiche. Quest’anno l’evento avrà luogo a Maribor, seconda città più grande della Slovenia ed ospiterà oltre alla classica fiera della letteratura anarchica anche altri eventi culturali, laboratori, dibattiti, cucina popolare eccetera. Gli/le organizzatori/trici, che si stanno premurando di organizzare sistemazioni gratuite per visitatori/trici da altri Paesi, possono essere contattati all’ indirizzo e-mail inter@a-federacija.org per eventuali adesioni, proposte o domande. Altre informazioni sono disponibili sul sito a-federacija.org.

Abolire il lavoro?

La gran parte dei movimenti politici emancipatori (o presunti tali) affronta il tema del lavoro in chiave di miglioramento delle condizioni della classe lavoratrice, conquista di diritti e, nei casi più radicali, sostiene l’abolizione del lavoro salariato. Sono in pochi però a mettere in discussione l’essenza del concetto di lavoro proponendo esplicitamente la sua abolizione. Abolire il lavoro? Sembra un’idea strampalata che lascia perplessi anche molti anarchici, per non parlare dei marxisti (il marxismo è fondato su concetti quali lavoro e classe lavoratrice ancor più dell’anarchismo, a sua volta più variegato e ricco di sfumature e di correnti a volte molto diverse tra loro), eppure vi sono teorici che si sono concentrati proprio su questo tema mettendo in discussione il dogma del lavorismo. Uno di questi è lo statunitense Bob Black, autore tra l’altro nel 1985 del famoso opuscolo “L’abolizione del lavoro” (“The abolition of work”, raccolto poi nell’antologia “The abolition of work and other essays”) nel quale si sostiene che il lavoro è un’attività che sfrutta i più per arricchire pochi, organizzata quasi sempre in modo autoritario e degradante, stancante e pericolosa a tal punto da essere spesso causa di morte o lesioni gravi, quasi mai stimolante per l’intelletto e perfino, nella stragrande maggioranza dei casi, inutile. Il lavoro debilita l’essere umano più che nobilitarlo, é quello che ho sempre sostenuto riferendomi al suo esercizio nell’attuale società e leggendo il breve scritto di Bob Black ho trovato un complemento interessante alla mia riflessione. Black a mio parere non mette tanto in discussione il concetto di attivitá umana finalizzata a produrre beni o servizi, ma sostiene in pratica che si dovrebbero ripensare le attività umane in chiave di gioco, liberandole dalla loro forma organizzata, rigida, continuativa e coercitiva tipica della società capitalista (a scanso di equivoci è bene sottolineare come la mannaia di Black si abbatta ancor più impietosa sulla condizione lavorativa nei Paesi retti dal cosiddetto socialismo di Stato- URSS, Cina, Cuba, eccetera). La disgregazione della famiglia tradizionale e la centralità di una concezione emancipata della sessualitá sono altri due punti chiave dell’analisi proposta ne “L’abolizione del lavoro”.

Ora, partendo da ciò che trovo interessante nelle riflessioni esposte da Black nell’opera succitata, posso delineare grosso modo quello che per me sarebbe un possibile modello lavorativo in una società autogestita ed emancipata. Innanzitutto ciascuno dovrebbe poter svolgere le mansioni che più gli/le aggradano, siano esse “produttive” o meno; le mansioni meno “appetibili”, a patto che ve ne siano (personalmente non troverei degradante dover pulire i gabinetti usati da altri, a patto che ciò non diventi la mia unica occupazione e che io possa svolgerla in modo occasionale e senza pressioni di tempo o ordini superiori), verrebbero svolte a rotazione. Se si eliminassero una serie di attivitá oramai divenute inutili vi sarebbe piú tempo da dedicare a cose gratificanti o importanti, così come se tutti/e impegnassero una frazione del loro tempo nello svolgere attivitá produttive, il tempo autogestito e dedicato, perchè no, all’ozio sarebbe molto maggiore di quello del quale la maggior parte di noi dispone oggigiorno. Sull'”inutilità” di certi lavori lo stesso Black fa alcuni esempi calzanti (“commessi, militari, manager, poliziotti, agenti di borsa, preti, banchieri, avvocati, insegnanti, proprietari, addetti alla sicurezza, pubblicitari, e tutti quelli che lavorano per loro”) e a ciò si deve aggiungere il fatto che nel sistema capitalista vengono prodotte troppe merci, moltissime di esse non sono necessarie e vengono buttate via ancor prima di venir consumate/usate.

Il fatto di non poter organizzare da sè il proprio lavoro e di conseguenza il proprio tempo è un problema che affligge gran parte delle persone che lavorano nell’attuale società. Se invece l’organizzazione delle mansioni, del tempo, della produzione venisse affidata a chi effettivamente svolge le mansioni stesse, in modo orizzontale, affidando i compiti amministrativi a rotazione, la situazione cambierebbe in modo percettibile. Cornelius Castoriadis, marxista eterodosso le cui idee trovo personalmente interessanti e fonte d’ispirazione, ha pubblicato a suo tempo alcuni articoli potenzialmente molto validi sul tema “autogestione vs. gerarchia” (qui la seconda parte), nella quale si affronta anche l’aspetto della retribuzione dell’attività lavorativa. A tale proposito è fondamentale interrogarsi su questo punto: in che modo andrebbe remunerato il lavoro in una società liberata? Ciò dipenderà ovviamente anche dalle scelte che in tale (o tali) societá verrà fatta sulla questione del denaro, se esso verrà del tutto abolito o sostituito da altre forme monetarie diverse da quelle che conosciamo oggi. Altri due nodi fondamentali della questione riguardano a mio parere la specializzazione e la suddivisione del lavoro: se ne può fare a meno? E se si dovesse constatare che la risposta è un “no”, è possibile evitare l’alienazione di chi svolge le attivitá produttive pur mantenendo la divisione del lavoro-almeno entro certi termini?

Altra questione affrontata di straforo da Black è quella della tecnologia. Personalmente mi trovo d’accordo con ciò che egli accenna su questo aspetto, credo che molte tecnologie siano potenzialmente neutrali e quindi si possano usare per fini emancipatori, anche se non va dimenticato anche qui una possibile ed eccessiva specializzazione del lavoro e la conseguente creazione di una “casta” di tecnocrati esperti di ciò che le masse non sono in grado di comprendere e far funzionare- su questo aspetto si soffermò anche Alfredo Maria Bonanno nel suo scritto “Tesi di Cosenza. Il problema dell’occupazione. Per una critica della prospettiva anarco-sindacalista”. Se escludiamo i primitivisti alla Zerzan rimane comunque difficile rifiutare qualsiasi tipo di progresso tecnico, meglio piuttosto chiedersi a chi può giovare tale progresso, quanto costa in termini di sfruttamento delle risorse e come esso viene impiegato.

Rileggendo quel che ho appena scritto mi accorgo di aver posto più domande che risposte, ma in fin dei conti è così che si dovrebbe fare. Non mi dispiace ammettere che le risposte a questioni di importanza cruciale spesso possono essere trovate grazie al contributo di un gran numero di persone che tentano non solo di teorizzare, ma anche e soprattutto di mettere in pratica le loro idee sottoponendole alla prova dei fatti e adattandole alle circostanze ed ai tempi oltre che alle esigenze individuali e collettive, senza dogmatismi, tenendo ben presenti quei pochi ma fondamentali princìpi che animano tutti gli anarchici: libertà, uguaglianza nella differenza, autogestione, partecipazione diretta, autonomia, orizzontalità, decentralismo, felicità individuale e collettiva.

Angela Davis, “Aboliamo le prigioni?”

 

Angela Davis, “Aboliamo le Prigioni?” (Con un saggio di Guido Caldiron e Paolo Persichetti) , Minimum Fax 2009, ISBN 978-88-7521-201-8

“Angela Davis, la mitica militante degli anni Settanta, è oggi un’intellettuale di fama internazionale che ha focalizzato il suo impegno politico in una delle battaglie per i diritti civili più difficili: abolire il carcere. Un mondo senza prigioni è forse impensabile, anche per chi proclama il suo progressismo. Ma con lucidità scientifica, un’enorme mole di materiale documentario e un instancabile passione ideale, la Davis analizza il sistema «carcerario-industriale» americano – quello per cui due milioni e mezzo di persone sono detenute negli Stati Uniti – e mostra come questa democrazia modello regga le sue basi economiche su una forma di schiavismo morbido: donne abusate e farmacologizzate, manodopera a costo zero per le grandi corporation, neri e ispanici a cui vengono negate istruzione e assistenza sanitaria di base. Aboliamo le prigioni? è una piccola guida di resistenza, che a partire dalla battaglia contro il carcere tuona la sua voce contro tutte le forme di oppressione. E alla fine ci chiama direttamente in causa, per farci diventare consapevoli di come le nostre idee cambieranno veramente soltanto quando saranno cambiati i nostri comportamenti.” (Dalla quarta di copertina del libro).

Quest’ opera della Davis, composta da due scritti ( “Il carcere é obsoleto?” e l’intervista di Eduardo Mendeta “Per una democrazia dell’abolizione” ), tratta un tema complesso e di fondamentale importanza, analizzando il legame negli Stati Uniti tra la nascita delle carceri e la loro attuale esistenza e schiavitù, razzismo, controllo sociale e interessi delle corporations attraverso un linguaggio semplice ma non semplificativo, fornendo al/la lettore/trice un’analisi di rara lucidità sul fenomeno carcerario, sul falso mito della sicurezza e sulle politiche repressive sulle quali si basa la cosiddetta “democrazia”. Oltre i preconcetti ed i falsi miti, analisi storiche e dati alla mano, la Davis mette a nudo la realtà del razzismo, del sessismo, della tortura e delle violenze che sono parte imprescindibile del regime detentivo, chiarendo in modo inequivocabile come l’esistenza delle prigioni sia legata a precisi interessi e politiche del sistema dominante, al concetto di esclusione, all’imperialismo. A conclusione del libro un breve saggio di Guido Caldiron e Paolo Persichetti analizza l’attuale situazione europea e l’origine delle tendenze reazionarie e populiste della “tolleranza zero”  dal punto di vista sociologico e politico.

-Vedi anche: articolo pubblicato sul blog “Attualizzando” da enrico76.

Tobia Imperato, “Le scarpe dei suicidi”.

Ieri, 28 Marzo, ricorreva l’anniversario della morte di Edoardo “Baleno” Massari, sequestrato dallo Stato con l’accusa di attentati contro il progetto dell’alta velocità in Val Susa, accusa dalla quale verrà prosciolto solo quattro anni dopo essersi suicidato in carcere. Lo Stato ed il capitalismo uccidono in tanti modi: privano le persone dei mezzi di sostentamento, emarginano e costringono a violare le leggi stabilite dai vertici delle gerarchia sistemica,ingabbiano, fanno guerre, negano diritti e colpiscono chi li reclama. Ciò avviene tutti i giorni e continuerà ad avvenire finchè persisterà lo stato di cose attuale, finchè continueranno ad esistere gli Stati ed il capitalismo. Ricordare la vicenda di Baleno, Sole e Silvano è più importante che mai, non solo quando ricorre un tragico anniversario, ma perchè l’autore del libro che racconta la loro storia è lui stesso inquisito dallo Stato, privato della propria libertà; perchè il progetto del TAV incontra ancora un’accanita resistenza popolare che le autorità tentano di spezzare in tutti i modi, con la calunnia e con le menzogne tanto quanto con la violenza poliziesca, con i processi e le condanne; perchè la memoria vive nelle lotte quotidiane del presente e del futuro, che sono l’omaggio più concreto a chi ha pagato con la libertà e con la vita la propria scelta di opposizione all’orrore imposto dal sistema di dominio e sfruttamento.

 “A nosotros nos quieren muertos porque somos sus enemigos y no le servimos para nada porque no somos sus esclavos. (Ci vogliono morti perché siamo i loro nemici e non sanno che farsene di noi perché non siamo i loro schiavi)”. MARIA SOLEDAD ROSAS.

“Il 5 Marzo 1998 a Torino sono stati arrestati tre anarchici che abitavano la Casa di Collegno. Lo squat viene chiuso dalle autoritá. Contemporaneamente vengono attaccate altre due case occupate: l’Asilo é sgomberato mentre all’Alcova l’operazione non riesce. Edoardo Massari (Baleno), Maria Soledad Rosas (Sole) e Silvano Pellissero sono accusati dal PM Maurizio Laudi di essere gli autori di alcuni attentati, avvenuti in Val Susa, contro i primi cantieri del Treno ad Alta Velocitá. I tre arrestati si dichiarano estranei alle accuse avanzate nei loro confronti. Immediatamente nasce un vasto movimento di protesta contro la montatura di giudici, ROS e Digos, che si estende anche in altre cittá. Decine e decine di persone vengono intimidite, pestate, inquisite, denunciate, processate e condannate. Televisioni e giornali, di destra e di sinistra,- in servile ossequio al potere- scatenano una canea mediatica volta alla criminalizzazione dei posti occupati torinesi e degli occupanti. Gli squatter diventano il nuovo mostro da debellare.
Il 28 dello stesso mese Edoardo Massari muore impiccato nel carcere delle Vallette. l’11 Luglio successivo muore nell’identico modo anche Soledad Rosas, lei pure in stato di detenzione. Nel Gennaio 1999 Silvano, unico sopravvissuto all’inchiesta di Laudi, é condannato a 6 anni e 10 mesi dal giudice Franco Giordana. Verrá liberato solo nel Marzo 2002 dopo quattro anni di detenzione, in seguito alla sentenza della corte di cassazione che riconoscerá l’inconsistenza delle prove relative all’associazione eversiva (art. 270 bis). Ora che gli abitanti della Val Susa sono avvisati, decolla il progetto del treno veloce. A contrastare i programmi miliardari e altamente nocivi del potere, sono solo i pazzi ed i sovversivi. E finiscono male.
Seppelliti i morti, gli Assassini- premiati dallo Stato- vorrebbero dimenticare…”
(Dalla quarta di copertina della seconda edizione del libro).
Il libro di Imperato é edito dalle Autoproduzioni Fenix e non é soggetto a copy-right. Per scaricarlo gratuitamente o per acquistarlo clicca qui sopra.

Dietro il mito di Che Guevara.

Ernesto Guevara De La Serna, piú noto come Ernesto Che Guevara, é uno dei tanti miti del ‘900 che ancora affascina molti, giovani e non, in cerca di punti di riferimento e personaggi da elevare a icone, un mito sbandierato dalla sinistra politica, rivoluzionaria o riformista che sia, di norma criticato ferocemente solo da persone che nella maggior parte dei casi non difendono posizioni (e metodi) certo migliori di quelle che il “Che” sostenne durante la sua vita votata alla rivoluzione. Ma quale rivoluzione, con quali mezzi, ma soprattutto con quali fini? E cosa potrebbe pensare un anarchico di un personaggio simile? Le risposte, a mio parere pertinenti, ben documentate ed accompagnate da riflessioni condivisibili, nell’articolo che linko di seguito. Buona lettura e buona riflessione! 

 

 

 

 

 

Santo Che-Martire guerrigliero (tratto dal sito Finimondo, originariamente pubblicato su Machete, n.1, Gennaio 2008).