Como: quando la solidarietà coi migranti è “socialmente pericolosa”.

Ho ricevuto pochi giorni fa una lettera con la richiesta di diffonderla. Si tratta del racconto di un compagno colpito da un provvedimento repressivo comminatogli dalle autorità a causa della sua attività a favore dei migranti concentrati a Como a seguito della chiusura della frontiera con la Svizzera:

Lettera aperta dal confino

FABIO ACHAB·VENERDÌ 14 OTTOBRE 2016

Buongiorno a tutti,

Sono Fabio Gabaglio, ieri mattina mi è stato notificato un “foglio di via” da Como della durata di un anno. In questo atto mi si accusa di avere preso parte ad una manifestazione non autorizzata in cui si denunciava la complicità della ditta di trasporti Rampinini nella deportazione dei migranti, di essere una persona socialmente pericolosa e di frequentare la città di Como col solo scopo di compiere reati. Con questa lettera aperta, per chi avrà la pazienza di leggerla, io intendo spiegare il mio punto di vista, rivendicare pubblicamente il mio operato, la mia identità e produrre quella difesa politica che in altre sedi non mi è consentito di dare. La doverosa premessa è quella che fa dei lettori a cui mi rivolgo, dei “giudici impectori”, il cui giudizio è quello che maggiormente m’importa, supponendo che anch’essi, come me, si pongano propositi di cambiamento radicale della società, interpretando il presente come profondamente ingiusto. Dal luglio scorso, quando la città di Como si è trovata al centro di quella che è stata definita “emergenza migranti”, ho iniziato ad interessarmi a quanto stava accadendo tra il confine Italo-Svizzero e la stazione di Como san Giovanni. Una sorte ironica fece che tutto il mio tempo libero, ferie incluse, lo trascorsi in quello che è anche un mio luogo di lavoro, in quanto di mestiere sono Macchinista Ferroviere. La storia è nota, ma non è mai superfluo ripeterla: L’autorità doganale svizzera chiude quasi completamente le dogane ai numerosi profughi che tentano di attraversarla e ai richiedenti asilo che vi si vorrebbero insediare, e a Como si crea quindi un ingorgo e l’accampamento che tutti abbiamo conosciuto. Chi cerca di passare il confine viene respinto a piedi sul suolo italiano nel migliore dei casi, altrimenti viene deportato nei centri di smistamento del sud Italia, Taranto quasi sempre. Con alcuni sodali decido esprimermi e spendermi sulla questione dando un apporto politico all’enorme e meritorio sforzo civile che la città, la parte migliore della città, ha profuso per dare ai “Ragazzi” un’ accoglienza dignitosa, un trattamento umano e un sostegno materiale. Il mio proposito aggiuntivo è quello di animare il dibattito generale sulla questione migratoria, ponendo degli interrogativi politici sugli interessi che influenzano la gestione dei flussi ed evidenziando le innumerevoli contraddizioni che ne emergono. Iniziai cosi, implementando il lavoro quotidiano di centinaia di volontari, a produrre una critica che spingesse ad andare oltre il livello della necessaria accoglienza che da più attori viene messa in campo, per costruire una solidarietà diretta, capace di mettere in relazione la condizione dei migranti, vittime estreme del sistema economico in cui viviamo, e la nostra, di indigeni, esposti agli effetti della crisi e della conseguente precarizzazione totale delle nostre vite. Per farlo in modo organico, occorreva però toccare con mano le questioni, conoscerle a fondo, e mediante l’inchiesta, guadagnarsi la libertà di parola, il titolo di potersi esprimere a ragione veduta. La prima iniziativa per cui mi spesi in prima persona fu il 7 agosto, una giornata di giochi, sport e socialità. Bastarono quattro palloni, un paio di canestri da basket, e una merenda collettiva per scoprire che quello che ne sarebbe seguito sarebbe stato molto di più della semplice inchiesta politica, ma sarebbe diventato anche una relazione di profonda amicizia, di empatia, di auto-riconoscimento. Senza quasi rendersene conto il rapporto si strinse molto, il “noi” ed il “loro” si fusero, i nomi impronunciabili e forestieri divennero familiari, e quelli che rifiutammo di considerare “utenti-destinatari” della nostra elemosina divennero compagni delle nostre infinite giornate campali, narratori delle storie più incredibili, portatori della più legittima delle volontà. E noi ne diventammo complici. Si sperimentò un percorso di autogestione da cui nacque l’infopoint: un gazebo in cui si cercava di dare le principali informazioni pratiche e una primissima accoglienza materiale (cibo e vestiti) a chi arrivava al “campo informale”, si organizzarono corsi di italiano ed inglese, e ogni sera si tenevano riunioni interetniche tradotte in inglese, arabo, francese, tigrino, amarico, oromo… Fu in questo contesto di confronto virtuoso che si decisero le molte e diverse iniziative messe in campo, tra le quali la lettera aperta che i migranti scrissero alla città, il presidio tenuto a Pontechiasso, dove decine di migranti reclamarono il loro diritto di superare il confine e di non essere trattati da animali, e il corteo del 15 settembre, forse il più bello che nei miei trent’anni (molti dei quali vissuti da militante politico) possa ricordare, e per il quale personalmente chiesi l’autorizzazione alla questura. Quel corteo per me fu una scommessa: 500 persone dalle più diverse sensibilità ed esperienze, migranti in testa, veicolavano il messaggio lanciato dall’appello, “Il campo non è una soluzione, aprite il confine!”. Rimandate al al mittente le provocazioni dei fascisti che minacciarono costantemente la coda del corteo, disattese le aspettative allarmiste di chi paventava la calata dei barbari in città, dissolta la coltre di terrore imposta dallo sproporzionato spiegamento di militari, il corteo, fortemente comunicativo, sfilò per la città senza intoppi. La scommessa fu vinta. Il clima tuttavia cambiò repentinamente quando aprì il campo governativo, la non-soluzione sulla quale sollevammo tanti dubbi e contro la quale gli stessi migranti si sono sempre espressi. Nei giorni immediatamente precedenti alla sua apertura la solidarietà iniziò ad essere sempre più criminalizzata, cucinare o portare cibo divennero pretesti per far intervenire la polizia, le docce e la mensa vennero chiuse, e i migranti, in un paio di giorni, furono costretti a lasciare i loro ripari di fortuna per entrare nel campo governativo. I dubbi diventarono certezza quando la natura del campo governativo si manifestò in tutta la sua burocratica freddezza. Le garanzie date dal prefetto sul funzionamento del campo furono prontamente disattese, le richieste di modelli alternativi di accoglienza non furono accolte, le tutele specifiche per minori non vennero attuate, il regolamento interno non fu pubblicato, i volontari furono estromessi, e chi riponeva speranze nel “circuito legale dell’accoglienza” rimase amaramente deluso. Lo stato così ha ripreso il controllo della situazione anche fuori dal campo, tutto quello che prima era socialmente accettato e tollerato, ora è proibito. Distribuire cibo, incontrare, parlare con chi ha l’aspetto di un rifugiato, porta ad essere identificati, intimiditi, segnalati. Trovare un riparo di fortuna per chi non ha accesso al campo governativo è reso quasi impossibile dalle decine di pattuglie che ogni notte perlustrano ogni angolo di Como, ogni anfratto, con l’ordine di sgomberarlo, di rendere inospitale la città, cercando in questo modo di arrestare il flusso in arrivo. E su Como, la città bella e solidale che riscoprimmo quest’estate, cala un invernale clima di apartheid. Ora al sottoscritto, come ad altri attivisti, viene presentato il conto per il ruolo attivo tenuto in tutto questo. Il foglio di via, nella fattispecie, è una misura preventiva di natura fascista, in cui il questore, senza una vera e propria indagine, senza un processo e senza la possibilità di difesa, intima arbitrariamente al destinatario di non fare ritorno su un determinato territorio, riconoscendo in lui una presunta pericolosità sociale. La reale intenzione di chi emette questa misura non è tuttavia punire qualcuno per un reato specifico commesso, ma semplicemente colpirlo ed allontanarlo per le proprie idee e per le pratiche che potenzialmente ne derivano, isolandolo dai suoi percorsi di lotta e dal contesto sociale in cui è inserito. Nel mio caso, accade che ieri, 13 ottobre, mentre presenziavo in qualità di uditore alla conferenza stampa tenuta dalla rete di “Como senza frontiere” di fronte al campo governativo vengo avvicinato da alcuni funzionari di polizia che mi intimano di presentarmi in questura per notificarmi un foglio di via obbligatorio che mi inibisce dal fare ritorno nel comune di Como per un anno. Mi si contesta nello specifico di aver manifestato contro la ditta di trasporti Rampinini, che dal luglio scorso si occupa anche di deportare i migranti, che respinti in Italia dal confine elvetico, vengono caricati su dei pullman e, scortati da un ingente pattuglia di polizia, sono spediti nell’hotspot di Taranto, contro la loro volontà, senza avere contezza del loro status giuridico, interrompendo, mortificando e umiliando in maniera violenta il loro progetto migratorio, che per queste persone, rappresenta l’umana e innata pulsione a migliorare la propria condizione materiale. Per rimettere questa azienda davanti alla sua palese responsabilità di collaborazionista il 12 settembre si è tenuto un presidio simbolico davanti alla sua sede di via Napoleona, in cui si diffondeva un volantino e si esponeva uno striscione: Rampini complice delle deportazioni. Lo scrivevamo allora, lo ribadisco ora, assumendomi la responsabilità di quanto fatto. Se esprimere questo, senza chiedere il permesso a chi quelle stesse deportazioni le dispone e le realizza sia più vergognoso dello stesso compierle, lo lascio decidere a voi. Questo foglio di via mi descrive inoltre con l’infamante appellativo di “persona socialmente pericolosa”, che usa frequentare Como “col solo scopo di commettere reati” e di accompagnarmi a persone già oggetto di “segnalazioni all’autorità giudiziaria.” Io credo, che se vi sia una minaccia reale per la società, essa stia proprio nel fatto che certe dittatoriali limitazioni della libertà personale possano essere comminate a chi invece è parte integrante della società, a chi ne anima i moti di cambiamento, a chi ha la pretesa attiva di renderla più giusta, includente e civile. Essere riconosciuto come frequentatore abituale del campo informale della stazione è una cosa di cui non mi vergogno affatto. Farlo in concorso con altri solidali non ritengo sia un aggravante. Essermi riunito innumerevoli volte con dei migranti, averci discusso, essermi organizzato con loro per dare voce alle comuni istanze è una cosa di cui non sono in alcun modo pentito. Sfidare il clima di piombo che si respira in città per continuare a mantenere il rapporto con i migranti incontrati fino ad oggi, o per costruirlo ex novo con chi tuttora continua ad arrivare, non credo faccia di me un pericolo sociale. Ebbene, con questo foglio di via, la questura, l’apparato immunitario dell’ingiusto sistema politico-legale che abbiamo di fronte, pone nella mia vita un ostacolo giuridico che si frappone tra me ed i miei propositi che lascio a voi giudicare. La città di Como inoltre, come è normale che sia, per me, rappresenta anche un luogo fisico in cui si intrecciano interessi personali, abitudini, relazioni sociali ed affettive dalle quali ora con questo provvedimento si cerca di isolarmi in un assurdo accanimento. É lì che abitualmente trascorro il mio tempo libero, è lì che sono solito incontrarmi con amici e amiche, è lì che talvolta mi trovo a esercitare la mia professione, ed è lì che voglio liberamente poter tornare. Lungi dal voler elemosinare la pietà di alcuno, io credo che il mio dovere, a fronte di quello che mi è toccato, sia in primis mettere in guardia ognuno di voi: quello che oggi si abbatte su di me, domani potrebbe succedere ad altri. Quando il divario tra legalità e giustizia si fa così sfacciatamente evidente tutti sono chiamati a prendere una posizione. Ed è quello che io ora vi chiedo. Grazie della vostra attenzione. La parte più bella di questa città rifiuta il razzismo e l’indifferenza, e io sono (ancora) lì. Fabio Gabaglio ”

Il sito Informa-Azione riporta un comunicato di persone colpite dallo stesso provvedimento, nello stesso contesto, che annunciano resistenza contro le misure restrittive imposte dalla Questura.

Sessant’anni fa: la rivoluzione ungherese.

Bildergebnis für anarchici rivoluzione unghereseLa rivoluzione scoppiata in Ungheria nell’Ottobre del 1956 è tutt’oggi oggetto di discussione storica e politica, sia per la sua natura ed il suo significato, sia per quelli che sarebbero potuti essere i suoi sbocchi futuri se nno fosse stata repressa con l’intervento militare dell’URSS poche settimane dopo il suo inizio. Mentre gli Stati “socialisti” e i partiti comunisti occidentali fedeli alla linea sovietica la dipingeranno a lungo come un’insurrezione reazionaria, nazionalista e antirussa, tesa a creare nel Paese un regime fascista simile a quello di Horthy che governò l’Ungheria per un ventennio e molti liberali, cristianodemocratici e socialdemocratici la definiranno come una rivolta di natura democratica che avrebbe dovuto riavvicinare l’Ungheria alle potenze Occidentali, vi è un’altra interpretazione dei fatti che tiene conto dei consigli operai che vennero creati fin da subito nelle fabbriche e che servivano ad esercitare un controllo diretto dei lavoratori sui mezzi di produzione e sui processi decisionali. L’esistenza di consigli di fabbrica, la loro centralità in un processo avviato dal basso per un cambiamento radicale dell’esistente al di là dei giochi politici e strategici dei due blocchi imperialisti contrapposti, è una realtà rimasta per troppo tempo in ombra. Mentre si preferisce parlare della repressione sovietica e degli equilibri geopolitici dell’epoca, del ruolo eroico e al tempo stesso tragico di Imre Nagy e celebrare il tragico anniversario della sconfitta della Rivoluzione in chiave patriottica -il tutto perfettamente in sintonia col clima reazionario e nazionalista che permea la società ungherese odierna e la classe politica che governa quel Paese-, per rendere onore alla realtà dei fatti si dovrebbe riportare al centro del discorso il ruolo dei consigli operai, le idee e gli obiettivi di chi tentò seppur invano di liberare la classe lavoratrice dalla morsa di partiti, burocrazia, servizi segreti e centralismo. Dieci anni fa, per il cinquantenario della Rivoluzione Ungherese, “A-Rivista Anarchica” pubblicava un testo che può aiutarci a recuperare informazioni su questi aspetti fondamentali: “I consigli operai”, di Suzanne Körösi. La stessa rivista pubblica anche uno stralcio del libro di Andy Anderson “Ungheria ’56. La comune di Budapest. I consigli operai”, che tratta il periodo immediatamente successivo alla fine “ufficiale” della rivoluzione ungherese e ci aiuta a capire meglio la natura dei consigli operai ed il loro rapporto/conflitto col potere statale. Solo conoscendo e comprendendo la Storia ci si può riappropriare del significato di eventi di cruciale importanza, sottraendoli a narrazioni falsate create ad hoc per far credere che non vi siano alternative al sistema dominante, per cancellare il passato di chi lottò contro qualsiasi forma di autoritarismo per liberare la classe lavoratrice dall’oppressione e dallo sfruttamento di vecchi e nuovi poteri e classi dominanti.

Germania: NSU, Stato e politiche sull’immigrazione. Un articolo per approfondire.

Il gruppo terroristico tedesco NSU (National-Sozialistischer Untergrund, ovvero “Sottosuolo Nazionalsocialista” o “Clandestinità Nazionalsocialista”), composto da Uwe Böhnhardt, Uwe Mundlos e Beathe Zschäpe, è stato responsabile tra il 1998 e il 2008 di dieci omicidi, tre attentati dinamitardi e numerose rapine. La carriera terroristica del trio è terminata solo con la morte di Böhnhardt e Mundlos, presumibilmente suicidatisi dopo un tentativo fallito di rapina, e col successivo arresto della Zschäpe. È stato allora che l’opinione pubblica è venuta a conoscenza dell’esistenza di questa cellula terroristica neonazista, che è stata capace di uccidere otto persone di origine turca, una di origine greca, una poliziotta tedesca e di compiere attentati e rapine mentre i suoi membri, già noti alle autorità, si muovevano senza temere troppo di essere scoperti e le indagini sugli omicidi e sulle bombe prendevano più che altro di mira le vittime e il loro presunto coinvolgimento in giri malavitosi gestiti da connazionali. Con l’inizio del processo a Beathe Zschäpe è emerso come diversi apparati polizieschi e servizi segreti abbiano insabbiato le indagini, fatto sparire prove, taciuto e coperto gli assassini, mentre ottenevano informazioni da diversi neonazisti in cambio di denaro, a sua volta utilizzato per finanziare le sanguinose attività dell’NSU. Ufficialmente si è parlato di panne, cattivo coordinamento tra le forze di sicurezza e concorrenza tra i diversi reparti, al più di incompetenza individuale. La realtà invece è molto peggiore. Quella che può sembrare una teoria complottista, lo Stato -o alcuni settori che ne fanno parte- che usa gli estremisti di destra come braccio armato illegale per perseguire obiettivi politici e strategici che devono rimanere perlopiù estranei alla conoscenza dell’opinione pubblica, non è una fantasia. Chi pensasse diversamente farebbe bene a ricordare Piazza Fontana, Piazza della Loggia e il treno Italicus in Italia, le rapine e gli attentati del Brabante in Belgio, i colpi di stato in Grecia e Turchia- solo per citare alcuni esempi, i più noti e documentati fra i tanti. Rimane solo da chiedersi cosa ancora non sappiamo riguardo quelle strutture messe in piedi con l’inizio della Guerra Fredda, quanto queste siano ancora funzionanti e quale sia il loro attuale impiego e raggio d’azione al di là dei casi noti.

Nel caso tedesco, il ruolo dello Stato nell’ “affare NSU” èstato trattato approfonditamente in un articolo firmato dal collettivo tedesco Wildcat e ripubblicato in lingua inglese sulla rivista Viewpoint Magazine, del quale trovate qui sotto il link. Pur preferendo la segnalazione e la diffusione di articoli in italiano su questo blog, ritengo l’argomento particolarmente importante e l’articolo altamente informativo e corretto (al di là di qualche dettaglio sul quale dibattere o avere dubbi), quindi invito chiunque non abbia molta dimestichezza con l’inglese ma sia comunque interessato/a a saperne di più a fare uno sforzo nella lettura!

The Deep State: Germany, Immigration, and the National Socialist Underground.

deep stat

Finlandia: passante ucciso da neonazisti del SVL durante una loro manifestazione.

Il 10 Settembre, durante un presidio del movimento neonazista finlandese SVL (Suomen Vastarintaliike, ovvero “Movimento di Resistenza Finlandese”) contro l’immigrazione, che si svolgeva di fronte alla stazione centrale di Helsinki, il 28enne Jimi Joonas Karttunen è stato malmenato dagli estremisti di destra per aver espresso ad alta voce il proprio dissenso nei confronti dell’ideologia neonazista mentre passava di fronte al presidio. Dopo essere stato ricoverato in ospedale e dimesso, Karttunen è deceduto pochi giorni dopo in seguito al trauma cerebrale subìto. Dopo il pestaggio, i militanti del SVL avevano pubblicato sul loro sito un video dell’azione, nel quale si vantavano di aver “ristabilito rapidamente la disciplina” nei confronti di un contestatore. Il materiale pubblicato è stato rimosso dai nazi dopo la morte di Karttunen insieme ai loro disgustosi commenti su Twitter, ma diversi video sull’accaduto che circolano sul web così come gli screenshot delle pagine in questione sono stati salvati e diffusi e rimangono come prova dei fatti. Tra i neonazisti presenti durante il pestaggio, quasi tutti hanno già subito condanne penali per aggressioni e violenze razziste e omofobe. Intanto uno di loro è stato arrestato il 17 Settembre in relazione all’omicidio di Karttunen. Ulteriori informazioni sul caso, in inglese, sono contenute in un articolo comparso sul sito antifascista Varis, che contiene anche gli screenshot e i video di cui sopra.

6-10 Ottobre 2016: campeggio antimilitarista in Sardegna.

Fonte: nobasi.noblogs.org

” [Aggiornato] Secondo campeggio antimilitarista della Rete No Basi né Qui né Altrove – 6/10 ottobre 2016 – Sud Sardegna

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[Aggiornamento] Per motivi logistici abbiamo deciso di far slittare di un giorno le date del campeggio, che sarà quindi dal 6 al 10 ottobre.

La Rete No Basi né Qui né Altrove propone anche quest’anno cinque giorni di mobilitazione e campeggio, in concomitanza con l’inizio del secondo semestre di esercitazioni militari, per rafforzare i percorsi di lotta contro il militarismo e la militarizzazione dei territori della Sardegna e non solo.

In questo momento l’asse Base Aerea di Decimomannu – Poligono di Capo Frasca può diventare, se già non è così, l’anello più debole della presenza militare in Sardegna. La crisi innescata dall’annunciata dipartita dell’aeronautica tedesca al termine del 2016 potrebbe mettere in forte dubbio l’esistenza stessa dell’aeroporto militare e, conseguentemente, del poligono di Capo Frasca.

Per questi motivi vogliamo creare un clima sempre più ostile contro i militari, affinché possibili nuovi affittuari (in sostituzione dei tedeschi) rivedano i loro propositi e gli italiani stessi vadano sempre più in crisi. L’anno scorso e quest’anno si sono tenute diverse manifestazioni e iniziative nei territori intorno all’aeroporto di Decimomannu, con l’obiettivo di bloccarne le attività, come quella dell’11 giugno contro la STAREX. Queste pressioni hanno dato dei risultati, minando le “condizioni per operare con la serenità necessaria”, come hanno dichiarato i vertici militari a pochi giorni dal corteo.

Annunciamo l’iniziativa del campeggio con largo anticipo, al fine di poter creare un percorso legato al territorio che ci permetta di arrivare ai primi giorni di Ottobre con idee, progetti e partecipazione più ampia e consapevole possibile.

Seguendo quello che per la Rete è stato un tratto distintivo inamovibile, il campeggio non vuole essere una mera iniziativa d’opinione: in quei giorni vorremmo che si alternassero momenti di lotta, socialità, analisi, dibattito, approfondimento, presenza sul territorio e tanto altro. Ci preme avere dei momenti di confronto, in cui si possa ragionare di prospettive ed esperienze e fare un bilancio di come le lotte si sono sviluppate, modificate e allargate.

Il campeggio sarà autofinanziato e autogestito. Come al solito non saranno presenti istituzioni e partiti, chi facesse parte di queste componenti potrà partecipare al campeggio e alle iniziative a titolo individuale, come tra l’altro faranno tutti coloro che vi vorranno contribuire.

Il programma in questo momento è in definizione.

Vorremmo discutere delle ramificazioni dell’apparato bellico e di come colpirle. La nostra attività degli ultimi tempi si è soffermata in particolare: sulle complicità tra civile e militare nel campo della logistica e della ricerca universitaria, sull’opposizione alla RWM Italia spa, fabbrica di bombe di Domusnovas, e in generale sul trovare delle soluzioni efficaci nel creare un territorio inospitale alla macchina bellica.

Quest’anno, a differenza del campeggio tenutosi a Cagliari lo scorso anno, abbiamo deciso di spostare l’attenzione nei pressi dei territori dove si svolgono maggiormente le esercitazioni militari, per approfondire la conoscenza di quei luoghi e rafforzare i rapporti e le relazioni tra le persone.

In questo momento pensiamo che sia importante ritornare a Capo Frasca, davanti a quei cancelli dove il 13 settembre 2014 si riaccese la fiamma dell’antimilitarismo sardo.

Le assemblee della Rete no basi né qui né altrove sono pubbliche, a cadenza settimanale e distribuite in varie zone della Sardegna.

Sul blog della Rete No Basi né Qui né Altrove, nobasi.noblogs.org, verranno pubblicati il programma, gli approfondimenti del campeggio, i prossimi appuntamenti e trovate i nostri contatti.

La Rete No Basi né Qui né Altrove”

Controinformazione sul terremoto nel Centro Italia.

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Come ci viene raccontato dai massmedia il terremoto che in Italia ha colpito la zona appenninica compresa tra Lazio, Marche e Umbria provocando la distruzione di interi paesi, la morte di più di 300 persone e lo sfollamento di altre migliaia? Più che informazione corretta e scientifica, unita ad una seria e impietosa riflessione sull’impreparazione a tali catastrofi naturali tremendamente aggravate sia dall’incuria che dalla cinica speculazione umana, l’evento viene spettacolarizzato in chiave emotiva. Gli sciacalli sono lì alla ricerca di dettagli macabri, storie strappalacrime, immagini simbolo che devono tenere incollati/e i/le telespettatori/trici allo schermo, piangono lacrime di coccodrillo mentre pensano alla grande occasione di profitto che riempirà le tasche di pochi. Esiste però un altro tipo di mentalità e quindi un modo molto diverso di fare informazione e vorrei qui fornirne degli esempi, riportando alcuni articoli “di parte”, contro-informativi, contenenti testimonianze critiche, osservazioni tecniche e notizie utili su come aiutare sfollati/e e sopravvissuti/e:

Terremoto, e tutto tornerà come prima”, di Zatarra su Alternativa libertaria;

“Solo le montagne sono serene”, su Malamente;

“Terremoto: aumenta la solidarietà popolare e dal basso contro sciacalli, razzisti e istituzioni”, su InfoAut.

 

Nel dibattito su hijab e burkini sono maschilismo e ignoranza occidentalista a farla da padrone.

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Negli anni ’30 del secolo scorso lo Schah di Persia, al potere in Iran, impose una legge che proibiva alle donne l’uso in pubblico del velo. Quella che doveva essere una misura liberale, imposta da un Capo di Stato che rivestiva tale ruolo solo grazie al benestare occidentale, si rivelò un enorme ostacolo all’emancipazione femminile: molte donne che prima uscivano tranquillamente per strada e frequentavano luoghi pubblici indossando il niqab, vergognandosi di girare scoperte smisero di partecipare alla vita pubblica e si rinchiusero definitivamente tra le mura domestiche. Il velo divenne successivamente un simbolo di resistenza ostentato dalle donne che si opponevano al regime dello Schah. Oggi, a distanza di più di ottant’anni, capita di trovare piscine pubbliche in diverse località europee che proibiscono l’uso delle vasche per chi indossa abiti quali t-shirt o leggins o il cosiddetto burkini, mentre in Francia si parla di vietare l’uso del burkini in spiaggia. Per chi si chiede come mai qualcuna decide di fare il bagno in piscina o al mare o di stare in spiaggia vestita, la risposta è semplice: esistono prescrizioni morali e/o religiose che alcune persone si sentono di osservare. Se questa scelta sia volontaria o imposta è da stabilire principalmente secondo il punto di vista che ciascuno sostiene, secondo me ad esempio chi si sottomette ad un qualsiasi potere o forma di dominio non è veramente libero/a, d’altra perte secondo alcuni/e autoimporsi norme, regole e disciplina, seppur concepite da altri/e, aderire a questo o quell’alta dottrina prestabilita, è una libera scelta. Chi decide quindi di non mostrare parti del proprio corpo in pubblico perchè ciò è tabú per la religione che professa, compie una scelta volontaria, o perlomeno questo è ciò che comunemente viene affermato. Nei Paesi che il pensiero dominante Occidentale definisce “liberi” quasi nessuno/a va in giro nudo/a anche quando fa molto caldo e gli indumenti non sarebbero indispensabili, semplicemente perchè ci sono regole, non solo leggi ma anche e soprattutto norme sociali (in Germania ad esempio non è vietato mostrarsi nudi in pubblico, solo gli atteggiamenti “osceni” e “provocatori”  sono perseguibili per legge) che ci portano a non farlo, esiste quel comune senso del pudore che ci viene tramandato da millenni ed è parte integrante di ciò che riteniamo sia “normale”. Per molte donne cresciute in famiglie di religione musulmana, la normalità è quella di indossare un abbigliamento, l’hijab, che esse definirebbero decoroso, che non mette in mostra né sottolinea le forme del corpo femminile. Questa scelta è sí frutto dell’educazione e del condizionamento sociale (come centinaia di scelte quotidianamente compiute da uomini e donne non musulmani/e… anche le donne che indossano un tailleur, una minigonna o un abito scollato, senza rifletterci sono a volte condizionate nel farlo), ma più raramente di quanto si pensi viene imposta con la forza dal capofamiglia. Moltissime donne musulmane, in tutto il mondo, frequentano scuole e altre istituzioni pubbliche, lavorano e socializzano con altri esseri umani indossando indumenti consoni alla propria morale, sentendosi sicure di sé, senza subire l’ostracismo sociale di ambienti tradizionalisti. Che certe forme di tradizionalismo, così come il patriarcato e in fondo tutte le forme di irrazionalità e superstizione (incluse ovviamente le religioni) vadano superate è una mia ferma convinzione, ma ciò non può e non deve avvenire per imposizione di qualcuno, tanto meno se questo qualcuno è impregnato di ignoranza, opportunismo, intenti discriminatori ed è egli stesso condizionato da un’impostazione patriarcale e maschilista. Cosa particolarmente grave e disgustosa, questo “qualcuno” (anzi, “questi”…) che bolla burkini e hijab come imposizioni e a sua volta vorrebbe imporne il divieto, a volte è lo stesso individuo che di fronte ad uno stupro è capace di trasformare la vittima in colpevole (“andava in giro di notte da sola, in abiti succinti…aveva bevuto…aveva un atteggiamento provocante…”), ponendo i soggetti femminili in una condizione tutt’al più simile a quella di un animale da proteggere dall’estinzione o di una creatura debole e non pienamente capace che andrebbe difesa, o peggio di una proprietà del soggetto maschile (“le nostre donne…”). Il soggetto oppresso deve invece emanciparsi da sé, chi appoggia il processo emancipatorio non ha il diritto di imporre e decidere per gli/le altri/e, ma dovrebbe sostenere in modo solidale le scelte del soggetto che decide di liberarsi. Chi oggi in Occidente vorrebbe proibire alle donne di fede musulmana di indossare indumenti da loro ritenuti appropriati, per le strade o in spiaggia, compie una scelta discriminatoria e sessista che promuove l’esclusione sociale. Se ad esempio si proibisse di indossare il burkini in spiaggia, molte donne musulmane eviterebbero direttamente di frequentare quei luoghi. Come la mettiamo poi con quelle donne che musulmane non sono, ma vanno al mare vestite o indossano pubblicamente un qualche tipo di “velo”? Magari son poche, ma ci sono, come l’ anziana sarda con su mucadori o la classica babuschka delle zone rurali Est-europee, solo per citare due tipologie a caso. Senza contare il fatto che se oggi i divieti minacciano l’uso di determinati capi di abbigliamento femminile, domani potrebbe toccare ad altri modi di vestire, acconciarsi o esprimere le proprie inclinazioni, convinzioni, identità attraverso l’aspetto esteriore. Quante volte ancora le donne di tutto il mondo dovranno sentirsi dire da qualche uomo cos’è giusto o sbagliato fare, come devono o non devono vestirsi, quali mestieri o atteggiamenti o quale linguaggio o quali compagnie si addicono al loro “essere donna”? Sarebbe ora che ognuna ed ognuno decidesse per sé, per quanto questa scelta per ora, in società ancora non liberate e perciò condizionate dagli effetti dei sistemi dominanti, non possa definirsi a mio parere del tutto libera. Ogni donna, -ogni essere umano!- dovrebbe avere il diritto di andare in giro dove vuole, abbigliata come meglio crede, senza dover rischiare sanzioni,ostracismo o molestie, con buona pace di quelli che parlano di emancipazione femminile senza sapere cosa ciò significhi e senza aver mai chiesto il parere delle donne direttamente interessate.

Grecia: sgomberati tre edifici occupati destinati all’accoglienza dei rifugiati.

Fonte: Pressenza- International press agency.

” Grecia, sgomberati a Salonicco tre edifici occupati dai rifugiati

28.07.2016 – Redacción Barcelona

Quest’articolo è disponibile anche in: Spagnolo, Greco

Grecia, sgomberati a Salonicco tre edifici occupati dai rifugiati

Di Theodoros Karyotis

La mattina del 27 luglio a Salonicco, in un atto senza precedenti nella ‘democrazia’ greca, il governo ha fatto sgomberare tre case occupate utilizzate come rifugio per i profughi.
Il governo di sinistra intende così trasmettere un messaggio preciso: nella difficile situazione dei rifugiati non c’è spazio per risposte basate sulla solidarietà e l’auto-gestione. Al loro posto solo carità statale, confino, emarginazione e deportazioni selettive, portati avanti da un governo che applica alla lettera le criminali politiche sull’immigrazione dell’Unione Europea.

Lo sgombero è avvenuto solo due giorni dopo la conclusione del campo No border a Salonicco, in cui migliaia di attivisti di tutta Europa si sono riuniti per protestare contro queste politiche.

Una delle case, Nikis, era occupata da tempo. E’ stata aperta per accogliere famiglie allo scoppio della crisi dei rifugiati. Un’altra casa, Orfanotrofeio, è stata rioccupata l’anno scorso con l’esplicito proposito di ospitare famiglie di migranti e profughi in modo auto-gestito. La terza, situata nel centro della città, è stata occupata pochi giorni fa, sempre con lo stesso obiettivo.

Orfanotrofeio  è stata sgomberata e subito dopo demolita. Sono rimaste così sepolte sotto le macerie tonnellate di medicine, cibo, vestiti e articoli di prima necessità destinate alle famiglie di rifugiati, così come gli effetti personali degli occupanti. Nel corso delle tre operazioni sono state arrestate centinaia di persone, tra cui molte profughe, inviate ai campi di detenzione e militanti greci ed europei del movimento di solidarietà con i rifugiati. A metà giornata del 27 luglio erano ancora sotto la custodia della polizia.

Non è la prima volta che il governo di Syriza mostra la sua faccia autoritaria. Dopo aver imposto le disastrose misure di austerity che il precedente governo di destra non era riuscito a realizzare, compete anche con questo nella dura repressione di chi continua a protestare e a lottare per la libertà e la dignità degli esseri umani.

Come risposta, una moltitudine di gente ha occupato la sede di Syriza a Salonicco. L’edificio è circondato da ingenti forze di polizia ed esiste la possibilità di scontri violenti. In tutta la Grecia intanto si stanno organizzando eventi, proteste e manifestazioni di solidarietà.

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Assalto agli edifici occupati dai rifugiati

Traduzione dallo spagnolo di Anna Polo”

Erdogan cavalca la tigre (di carta) del golpe.

Il golpe dilettantesco tentato lo scorso 15 Luglio in Turchia, durato una sola notte e sventato senza troppe difficoltà anche grazie all’appoggio dei sostenitori del presidente Recep Tayyip Erdogan scesi per strada al comando del loro amato padrone, sta avendo strascichi pesanti nel Paese e apre scenari inquietanti sia dal punto di vista dei diritti umani (il che non è una novità), sia per quanto riguarda gli scenari geopolitici che si profilano dopo quest’evento. Dal punto di vista della politica interna, più di 60mila persone tra militari, poliziotti, magistrati, insegnanti, giornalisti sono stati epurati, di questi almeno 13mila sono stati arrestati; “a caldo”, nelle ore immediatamente successive al fallimento del colpo di Stato, numerosi militari golpisti sono stati malmenati dalla folla, presi a calci e cinghiate sotto gli occhi dei poliziotti che li tenevano in custodia, alcuni sono stati addirittura linciati; manifestazioni filogovernative accompagnate da violenze contro elementi realmente o presumibilmente ostili al governo hanno avuto luogo in tutto il Paese, i sostenitori di Erdogan hanno invocato la pena di morte per i “traditori della Patria”. Ad essere accusati ufficialmente del golpe sono settori dell’esercito vicini al predicatore islamico Fethullah Gülen, ma diversi commentatori e analisti parlano anche di un coinvolgimento più o meno velato da parte degli Stati Uniti. Faccio subito notare che Gülen è stato, fino alla brusca rottura dei rapporti nel 2013, un gran sostenitore del partito di Erdogan, l’AKP, aiutandone l’ascesa al potere. Va altresì rilevato che quegli ufficiali conivolti nel tentato golpe e definiti ora “traditori della Patria” e accusati di terrorismo sono stati, fino a pochi giorni prima degli eventi in questione, impiegati nelle operazioni di controguerriglia nel Kurdistan turco, quindi fedeli esecutori della strategia di terrore dello Stato contro la minoranza curda. Ed è così che un personaggio difficilmente accostabile al seppur discutibile concetto di democrazia parlamentare, uno che manda l’esercito a massacrare civili nei villaggi curdi, che fa reprimere con la massima violenza le manifestazioni di dissenso, che sbatte in galera giornalisti e avvocati e attivisti politici e per i diritti umani quando direttamente non li fa ammazzare, che ha appoggiato a sua volta i terroristi e fondamentalisti di Daesh, che usa i fascisti del MHP per le operazioni sporche, oggi si presenta all’opinione pubblica mondiale senza alcuna vergogna come sincero paladino della democrazia, solo per aver regolato i conti con gli ultimi fedeli del suo ex complice Gülen, insorti in modo affrettato e male organizzato prima di venir definitivamente rimossi dai vertici dell’esercito. Se ciò non fosse estremamente tragico ci sarebbe da ridere.

Quel che preoccupa i rappresentanti politici dell’Occidente, però, non è tanto la repressione interna in Turchia: mica hanno fatto una piega, lorsignori e lorsignore, di fronte al genocidio culturale e materiale dei curdi (ricordo che in Germania il genocidio del popolo armeno è stato ufficialmente riconosciuto come tale solo pochi mesi fa, con cent’anni di ritardo!), né sono andati oltre le frasi retoriche di condanna ai tempi della repressione a Gezi Park e altrove, e nemmeno hanno mai accusato chiaramente il governo dell’AKP, pur di fronte all’evidenza, di aver sostenuto milizie di fondamentalisti islamici in Siria adottando una qualche contromisura, né hanno difficoltà ad accettare la proclamazione dello stato d’emergenza (né in Turchia, né tantomeno in Francia!). Ad impensierire i vertici dei Paesi UE, Germania in testa, è la possibilità che salti l’accordo blocca-profughi, con il quale la Turchia s’impegna a evitare che chi fugge dalla guerra civile siriana raggiunga i confini dell’UE, in cambio di denaro, riconoscimento politico e facilitazioni nell’ottenimento di permessi di soggiorno per cittadini turchi in Germania. Un’accordo su quest’ultimo punto però, insieme all’avanzamento delle pratiche per l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, sembrerebbe compromesso allo stato attuale delle cose. Ancor di più preoccupa l’avvicinamento di Erdogan alla Russia, nemico storico e potenza contrapposta agli interessi strategici della NATO nell’area mediorientale. La possibile alleanza trasversale tra Erdogan e Putin scombinerebbe non poco gli assetti strategici e politici che fanno comodo agli USA e alle altre potenze del Patto Atlantico. D’altra parte, permeata com’è la società turca di nazionalismo, turanismo, sciovinismo e revanchismo, il pensiero di uno spostamento dell’asse degli interessi turchi verso Oriente non dovrebbe stupire più di tanto. Quel che è certo è che le potenze occidentali non resteranno a guardare mentre i loro interessi vengono messi in pericolo, così come è certo che si prospettano tempi sempre più bui per chiunque, per un motivo o per un altro, non si trovi in linea con i progetti del sultano di Ankara, che può contare su una rinnovata credibilità interna anche grazie alla nuova patina di “salvatore della Patria e della democrazia”. Una vera e propria dittatura della maggioranza della quale a far le spese è e sarà una nutrita minoranza di persone, schiacciate tra l’incudine dell’autoritarismo sanguinario del governo turco e il martello dell’opportunismo ipocrita e assassino delle potenze occidentali.

È sempre colpa dei rom…

Circa un mese fa mi sono imbattuto per caso in un’articolo molto interessante scritto da Carlo Gubitosa per l’Espresso. Solo oggi, essendomi finora mancato il tempo, riesco a riproporne il link su questo blog, ma a pensarci bene la mia intempestività risulta opportuna, un pò perchè ormai per le elezioni comunali a Roma i giochi sono fatti, ma soprattutto perchè quel che scrive Gubitosa è sempre valido anche a distanza di un mese e purtroppo temo che lo sarà anche a distanza di anni e proprio per questo va tenuto sempre presente e va ripetuto a voce alta in faccia a tutti i populisti, ignoranti e razzisti. Per sforzarsi di capire al di là dei pregiudizi, per dare voce a chi altrimenti resta solo un capro espiatorio, un sacco da boxe preso a cazzotti dai frustrati menati per il naso da opportunisti d’ogni risma, incapaci di individuare le cause reali della propria e dell’altrui sofferenza.

I diritti agli italiani, i doveri ai Rom: Virginia Raggi, antiziganista a sua insaputa”, di Carlo Gubitosa.