Lavoro, consumo, spettacolo, tecnologia: “Black Mirror”.

La doppia schiavitù del lavoro e del consumo in una società distopica altamente tecnologica, un mondo sterile dove i sentimenti sono falsi e servono ad alimentare la dipendenza, dove lo spettacolo ha raggiunto la sua funzione più alienante, dove la tecnologia che molti credevano mezzo per soddisfare agevolmente le esigenze umane si trasforma in droga e al tempo stesso in gabbia, perno dello sfruttamento. Se, come affermava Theodore Adorno, “La libertà non sta nello scegliere tra il bianco e il nero, ma nel sottrarsi a questo tipo di scelta prestabilita”, abbiamo ben presente che nella storia qui narrata non esistono vere vie d’uscita dal labirinto nel quale ci si trova, ma solo scelte obbligate. Lo scenario nella quale ci si muove, per quanto fantascientifico, è ispirato alla realtà nella quale viviamo in questo momento. Gli schermi ci nutrono di emozioni stereotipate studiate a tavolino dai servizievoli esperti di marketing e comunicazione, mentre noi ambiamo a conquistare il biglietto che ci permetterà di metterci in mostra -il che equivale ad esistere, in un mondo dove apparire è tutto- e di ottenere, forse, un passaggio di livello in una gerarchia fatta di piccoli e grandi ingranaggi, dove un pizzico di libertà può essere infine ottenuta solo vendendo la propria etica. In un mondo del genere ciò che è bello, autentico, non può che venir triturato, manipolato, corrotto, distrutto nella sua essenza e riproposto come involucro vuoto al fine di perpetuare il sistema e nutrire i suoi compiacenti schiavi.

Il video che segue è una puntata della miniserie televisiva Black Mirror. Un prodotto del sistema che si vuole criticare, direbbe qualcuno/a. Oppure un’operazione di riempimento di un involucro vuoto creato a scopo di lucro con contenuti che possano far riflettere e prendere coscienza di alcuni aspetti della realtà nella quale viviamo, una volta tanto non semplice intrattenimento, ma uso consapevole di uno strumento alienante per opposti fini?

“Non più la Questione Kurda, ma l’Alternativa Kurda”.

Articolo pubblicato in lingua inglese sul sito Kurdish Question e riproposto tradotto in lungua italiana dal sito Da Kobane a Noi:

“Non più la Questione Kurda, ma l’Alternativa Kurda
di Hawzhin Azeez

È un errore, oppure una violenza simbolica, continuare a sostenere che la “Questione Kurda” resti irrisolta.
Per gli studiosi, gli esperti di politiche nazionali e internazionali e i burocrati la Questione Kurda, con le sue complesse implicazioni politiche intra- e internazionali, resta il dilemma chiave dei tempi moderni. La resistenza epica contro Daesh da parte delle YPG-YPJ ha lanciato la Questione Kurda sotto i riflettori internazionali come mai prima. Si tengono seminari e conferenze, libri e saggi vengono scritti uno dopo l’altro e centinaia di persone attingono in massa a pagini e siti pro-Kurdi in cerca di informazioni.
E forse l’etichetta clinica della Questione Kurda poteva essere utilizzata, perché i Kurdi e il loro ostinato rifiuto di venire assimilati e turchizzati, arabizzati o persianizzati è sfociato in reazioni sempre più violente da parte dello stato per risolvere il “problema”. Di conseguenza, per decenni i Kurdi hanno dovuto far fronte alle pulizie etniche, ricollocamenti etnici, politiche di arabizzazione, genocidi, e la perdita dei diritti umani più elementari a causa degli stati arbitrari e artificiali che a loro volta sono stati prodotti da recinti coloniali istituiti con la violenza. Gli stati artificiali e le loro macchinazione repressive e ideologiche hanno promosso politiche di monoidentità violente, escludenti, oppressive che hanno a loro volta portato alla costruzione di identità nazionali immaginarie e costrutti mitici che inneggiano a “una storia, una nazione, una lingua, una bandiera”. Questa identità intrisa di sangue non appartiene soltanto agli stati post-coloniali, ma è tipica di tutti gli “stati-nazione” moderni.

L’attenzione prevalente, interna ed esterna, sulla cosiddetta, prolungata Questione Kurda comprende questo tipo di discorso: “il sistema internazionale fallisce miseramente nel risolvere questo dilemma, o addirittura nel riconoscere la legittimità della drammatica condizione Kurda, persino di fronte alle continue violenze contro i Kurdi, soprattutto in Turchia, violenza che avvengono su ampia scala e che aumentano in maniera inquietante. Una nuova Ferian, “la missione civilizzatrice”, una logica eurocentrica-orientalista che presume che i disgraziati-soggettificati Kurdi chiedano all’Occidente neoliberista, statocentrico, capitalista di individuare la soluzione del loro “problema” – problemi che questo sistema mantiene alacremente.

I danni tremendi e deliberati ai siti storici come Sur, come Nusaybin e, attualmente, Shex Maqsud sono una prova sufficiente della mancanza di volontà e di interesse da parte di questo Sistema; è vero piuttosto che il sistema intenzionalmente spezza il legame tra l’identità e il passato per indebolire lo spirito dei Kurdi. In quanto Kurdi, il nostro dialogo interno e il discorso con l’Occidente non riesce a registrare in maniera definitiva e non apologetica la fine del “problema” (un termine che implica che la colpa vada addossata a coloro che subiscono la violazione dei diritti umani fondamentali, la cui semplice esistenza si pone come un “problema” per il sistema): in che luogo e modo i Kurdi dovrebbero collocare i loro diritti etnico-religiosi all’interno del Medioriente?
È evidente che le continue violenze commesse contro i Kurdi continuano a dimostrare la supremazia e il fallimento del sistema internazionale, eurocentrico e statocentrico. E, cosa ancora più importante, dimostrano il fallimento della democrazia neoliberista, o parlamentarismo capitalista, quale paradigma supremo del “nuovo ordine mondiale”. La privatizzazione, l’avanzata dei mercati, la deregulation, l’outsourcing, l’indebolimento dei sindacati, la diminuzione delle tasse ai ricchi, la forbice sempre crescente tra ricchi e poveri, la depoliticizzazione, l’anti-intellettualismo, le crisi finanziarie globali, la devastazione ambientale, le guerre neocoloniali con conseguenze disastrose (Iraq, Afghanistan…), l’ascesa dell’ISIS e di altre organizzazioni terroriste che crescono in loco ma i cui semi vengono gettati a livello internazionale, l’industria delle armi che vi è associata: tutti elementi sintomatici dei fallimenti della democrazia neoliberista eurocentrica e statocentrica. Perfino nel momento in cui i Kurdi, e altre minoranze etnico-religiose, grazie al confederalismo democratico, continuano a creare democrazie radicali dal basso, comuni e cooperative, consigli di strada, locali e regionali con l’intento di accrescere l’impegno, la partecipazione e la responsabilità politica; perfino nel momento in cui tentano di rimuovere decenni di conflitti primordiali che si sono trascinati nel tempo, di rimuovere l’odio, e al suo posto far nascere una relazione basata sui valori tipici del comunalismo, la tolleranza e la coesistenza reciproca.

Gli accademici, gli esperti e i decision-makers occidentali continuano faticosamente a cercare di affrontare la Questione Kurda; dovrebbero invece concentrarsi sul fallimento congenito della loro infrastruttura capitalista, macchiata di sangue, il fallimento della sua democrazia neoliberista, della sua incapacità a dare risposte efficaci e a creare un equilibrio adeguato ai diversi bisogni delle sue masse sfruttate, dei gruppi e degli interessi minoritari. Al contrario, la democrazia neoliberista continua a promuovere una omogeneità culturale aggressiva perfino nelle cosiddette società “democratiche” e “multiculturali”.

In Australia, la coesione nazionale viene espressa attraverso uno schema razziale illuminista e le conseguenti politiche identitarie xenofobe, che sono poi sfociate nel disastroso “Tampa affair”. Rispedendo indietro i migranti “sui barconi” o i gruppi di subumani che si trovano in fondo allo schema razziale, John Howard, allora primo ministro, decretò che “siamo noi a decidere chi entra in questo paese e in che circostanza”, un approccio che è stato fatto proprio dai successivi governi laburisti e che ha condotto alla creazione di centri di detenzione sulla terraferma e in mare. Carcerazione, malattie mentali, omicidi, stupri di bambini e donne in condizioni di vulnerabilità che cercavano un luogo sicuro, tentativi di suicidio… ecco alcuni degli effetti collaterali di una detenzione coatta prolungata per mesi, se non per anni di fila. Altre migliaia di persone muoiono in mare tentando di raggiungere porti “sicuri”, porti che nel frattempo lavorano alacremente per costruire muri di acciaio per tenerli fuori. Il corpo senza vita di Alan Kurdi ha espresso questa tremenda verità.
E invece il popolo Kurdo e altre minoranze del Merioriente, potenziate e liberate dalla pratica del confederalismo democratico, stanno aiutando centinaia di migliaia di rifugiati e di sfollati interni. Nella città di Kobane, a sua volta irriconoscibile per i danni inflitti, si trova un campo per gli sfollati interni che ospita più di 5000 persone. I cantoni di Cizire e di Efrin accolgono migliaia di migranti forzati e terrorizzati a sfuggire alla brutalità del regime di Assad, o di Daesh, o di entrambi. Le ideologie sinceramente democratiche potenziano e promuovono le facoltà umane della collettività e alimentano l’umanitarismo, piuttosto che fondarsi su un suo indebolimento.

In America e in Gran Bretagna, la democrazia neoliberista sta marciando verso il declino e in tutti i tre paesi appena nominati i mercati e il processo decisionale politico sono dominati da degli oligarchi, con un conseguente aumento delle disuguaglianze economiche. In Gran Bretagna, la disuguaglianza inaugurata dal Thatcherismo ha portato all’elezione di un governo New Labour che non è riuscito quasi in nessun caso a far fronte alle disuguaglianze insite nel sistema neoliberista; quel che poi si è prodotto durante i successivi governi di centro sinistra e di destra sono state crisi economiche e misure di austerità concepite per rendere i ricchi ancora più ricchi, mentre i poveri stentano ad arrivare a fine mese.
In particolare, in America l’ascesa del Trumpismo ha dimostrato il fallimento del sistema Americano, schiavo di think tanks, PACs (Political Action Committees, sovvenzionatori di campagne, personaggi e partiti politici), lobbies e agglomerati mediatici. Tale indebolimento dei controlli democratici ha condotto all’incapacità di affrontare le questioni insepolte legate alla razza, l’avvento del complesso carcerario-industriale e le violenze della polizia, simboleggiate oggi in maniera massiccia dal movimento Black Lives Matter. Al contempo, la perdita dei diritti delle donne, i continui tentativi di chiudere Planned Parenthood e di ridurre i diritti riproduttivi e l’autonomia delle donne per quel che riguarda il loro corpo perfino in casi di stupro dimostra la natura sfaccettata del modello americano di democrazia neoliberista. Parallelamente, politiche ipercostose e il sostegno incontrollato del mercato e delle lobbies per i candidati alle elezioni ha trasformato il modello democratico americano in un vuoto simulacro, dove i lobbisti manovrano le elezioni democratiche e gli interessi degli elettori. Niente personifica meglio questa tendenza dell’ascesa spettacolare – e preoccupante – del miliardario candidato elle elezioni presidenziali Donald Trump, la cui piattaforma politica è fondata prevalentemente sul fascismo, il razzismo, l’odio verso i rifugiati, e che alimenta un islamofobia già esistente, mentre al di là del mare le guerre neoimperialiste continuano.

Ma neppure l’Europa è al riparo dall’avvizzimento della cosiddetta democrazia capitalista. L’ultimo rapporto della Freedom House ha avvisato che “la crisi dei migranti e gli enormi problemi economici stanno minacciando … la sopravvivenza dell’Unione Europea”. La crescente mancanza di trasparenza e individuazione di responsabilità è sfociata nel declino delle democrazie nascenti nei Balcani, portando a un terribile degrado. Paesi come la Serbia, il Montenegro e la Macedonia hanno utilizzato “uomini forti” in politica per richiedere un atteggiamento meno rigido dall’Unione Europea, unione sempre più defunta di ventotto democrazie capitaliste, la cui deplorevole risposta collettiva alla cosiddetta “crisi dei rifugiati” ha dimostrato il crollo delle radici istituzionali, normative, morali dell’Unione.

Nello stesso tempo, la Turchia ha astutamente sfruttato la crisi dei rifugiati per estorcere più indulgenza dall’UE verso i negoziati per l’entrata nell’Unione, mentre continua ad avere un approccio genocida nei confronti della Questione Kurda. La risposta del sistema capitalista è gettare più soldi alla Turchia, nonostante un recente rapporti di Amnesty International abbia evidenziato in maniera preoccupante il prodursi di ritorni forzati di rifugiati siriani. La democrazia capitalista, sotto la leadership illiberale di Angela Merkel, ha condotto al soffocamento degli elementi chiave della democrazia, come la libertà di parola: i disegnatori satirici tedeschi sbeffeggiano Erdogan ritraendolo imbavagliato e minacciato con sentenze di prigione.

Ci troviamo di fronte a una negazione perenne della legittimità dei diritti delle minoranze impegnate nella propria autodifesa e resistenza attiva, che va da un annacquamento di richieste legittime allo sradicamento bello e buono di richieste di diritti portate avanti per anni, come è avvenuto chiaramente nel caso delle dissoluzione delle Tigri del Tamil nel sistema democratico neoliberista, delle comunità Indigene e Aborigene in Medioriente, America Latina, Asia, Stati Uniti, Canada e Australia, che vengono etichettate come “terroristi”, “dissidenti”, “radicalizzati”, come selvaggi non democratici e non civilizzati.

Il governo dell’AKP in Turchia, nel frattempo, continua a massacrare il popolo Kurdo nel silenzio, che diviene così assenso, della comunità internazionale. Non stupisce che di fronte a tale oppressione cresca la “rivoluzionizzazione” dei giovani – piuttosto che la loro “radicalizzazione”, termine che implica la presenza di uno sguardo eurocentrico-orientalista, dall’alto verso il basso, a svilire la legittimità dei diritti delle minoranza all’autodifesa paragonandola a un generico terrorismo sponsorizzato dallo stato, proprio di un depotenziato gruppo etnico-religioso, per mano del secondo maggior esercito della NATO. Moltissimi giovani vanno in montagna in Kurdistan a cercare rifugio e trovano l’addestramento militare, ma soprattutto ideologico, necessario a combattere le strutture oppressive e genocide dello stato.

La mitica “fine della storia” di Fukuyama, espressa con tanta sicumera dai portavoce accademici e intellettuali del Nuovo Ordine Mondiale, guidato dall’egemonia statunitense, è stata evidentemente svuotata di significato nel momento in cui emerge in Medioriente un modello democratico alternativo, radicale, locale: il confederalismo democratico.
In maniera non dissimile, la profezia di Huntington sullo “scontro di civiltà” era stata predicata tra l’Occidente e l’Islam nel mondo post-11 settembre; non era però in grado di immaginare che lo scontro si sarebbe svolto tra la democrazia neoliberista, il cui decadimento interno dimostra le incoerenze e gli antagonismi intrinseci al capitalismo, e la democrazia radicale, definita come confederalismo democratico e sviluppata da Abdullah Ocalan, ispirata dalle opere di Murray Bookchin.
La democrazia neoliberista eurocentrica e statocentrica non ha mai concepito che il cosiddetto scontro di civiltà si sarebbe svolto con un sistema democratico alternativo. Ha presunto che il suo sistema democratico si sarebbe dimostrato l’unica opzione possibile contro alternative fasciste, terroriste e violente; la sua cecità epistemologica non riusciva a rispondere, né anche solo a tenere in considerazione il razionalismo occidentale. Al contrario, il suo orientalismo inerentemente eurocentrico ha reso miopi i falchi neoliberisti che immaginavano semplicemente un mondo popolato da “terroristi islamici” ad alimentare le proprie perpetue macchine belliche. I neoliberisti hanno continuato a dominare e a riorientare i principali enti ed istituzioni internazionali verso la promozione della sua versione di democrazia capitalista: tra gli altri, le Nazioni Unite, la NATO, la Banca Mondiale, il FMI, l’OCSE. Ma, come ha sottolineato Mohamad Tavakoli-Targhi, gli sviluppi sociali “e i processi alternativi, non europei”, non occidentocentrici “sono stati definiti come assenza di cambiamento e storia non storica”.
Non hanno mai immaginato che una delle comunità più oppresse del Medioriente avrebbe formulato una cosmologia, una filosofia e un approccio per la risoluzione dei diritti delle minoranze di natura complessa, coesiva, inclusiva, multiculturale, antimonopolista e orientata al consenso; quella stessa risoluzione che il loro sistema, nel migliore dei casi, non è stato in grado di affrontare, se non l’ha attivamente repressa nelle forme panottiche dell’utilitarismo di stampo Benthamita, concepito per servire gli interessi delle élites minoritarie.
Ma chi altro avrebbe meglio potuto formulare una soluzione alla condizione degli oppressi se non i più oppressi, i più emarginati?
Ma è giunta l’ora.

È giunta l’ora che gli attivisti e gli accademici Kurdi smettano di crucciarsi riguardo alla “Questione Kurda” che continua ad andare avanti, una questione apparentemente irrisolvibile. Non siamo una questione da risolvere; non siamo una formula matematica! Siamo una collettività di persone fortemente oppresse la cui ideologia di liberazione ha creato un modello per la nostra comunità e per milioni di altri colonizzati; una soluzione che la modernità capitalista è stata incapace di trovare se non attraverso il genocidio e la pulizia etnica. Se non riusciamo a capire realmente che cosa significhi sminuiamo il portato del nuovo paradigma, che si sta dimostrando il più efficace nell’affrontare 5000 anni di sfruttamento statale e patriarcato.
Non più la Questione Kurda, ma l’Alternativa Kurda deve essere l’oggetto della nostra attenzione.
I Kurdi sono riusciti a individuare la soluzione al problema che non sono mai stati.
La vera questione è quanto il sistema democratico neoliberista, eurocentrico e statocentrico lotterà per non accettare la sua spettacolare sconfitta.”

Andrés Ruggeri, “Le fabbriche recuperate”.

Cover

Andrés Ruggeri, “Le fabbriche recuperate. Dalla Zanon alla RiMaflow. Un’esperienza concreta contro la crisi”, edizioni Alegre, 2014, ISBN 978-88-98841-07-3

Andrés Ruggeri, antropologo presso la facoltà di Lettere e filosofia di Buenos Aires, analizza in questo libro il fenomeno delle imprese recuperate dai/lle lavoratori/trici in Argentina, principalmente a partire dalla crisi economica del 2001 fino ad un paio di anni fa. Abbandonate dai padroni, occupate e rimesse in funzione dai/lle lavoratori/trici in un contesto spesso difficilissimo, le cosiddette fabbriche recuperate in Argentina sono più di 300 e consentono di lavorare a più di 15mila persone: una goccia nel mare dell’economia nazionale, forse, ma secondo l’autore di questo libro un esempio concreto e funzionante di come democrazia di base, mutuo appoggio, autogestione e soddisfacimento dei propri bisogni possano affermarsi anche nei momenti più difficili, in controtendenza rispetto al paradigma capitalista fondato su accumulo del capitale, massimizzazione dei profitti, sfruttamento, precarizzazione, predazione delle risorse e autoritarismo. Ne “Le fabbriche recuperate” vengono analizzati diversi elementi fondamentali, utili a comprendere il fenomeno in questione. Viene illustrato il contesto socio-economico nel quale nascono queste imprese, la loro tipologia, il loro sviluppo negli anni, il ruolo dei sindacati e dei diversi movimenti di lotta ma anche il rapporto spesso difficile o addirittura conflittuale con le istituzioni locali e nazionali, le strategie dei/lle lavoratori/trici e i loro obiettivi, la struttura e l’economia interna delle aziende recuperate ed il loro rapporto con il mercato, il ruolo delle tecnologie. Il tutto senza imbellettare la realtà e senza risparmiare critiche, parlando chiaramente di limiti ed errori, ma sempre sottolineando la genuinità, l’importanza e le potenzialità insite nell’autogestione operaia. Chi peró fosse interessato/a a conoscere meglio le esperienze di autogestione lavorativa in altri Paesi, ad esempio in Italia, dovrà procurarsi altri testi: nel titolo italiano del libro si cita infatti la fabbrica recuperata milanese RiMaflow, ma il libro in questione si concentra quasi esclusivamente sulla realtà argentina. Il che, secondo me, non è un limite e serve anche ad evitare che i contenuti risultino troppo dispersivi, mentre l’analisi di Ruggeri si presenta centrata e sintetica pur offrendo al tempo stesso un quadro generale di solide basi sulle imprese recuperate nel suo Paese e sul movimento, le idee e le forze che hanno permesso che un’aspirazione collettiva divenisse realtà tangibile.

The beautiful game and the horrible gain.

Mancano ormai pochi giorni all’inizio del campionato europeo di calcio in Francia, un Paese che nelle ultime settimane ha fatto notizia più che altro per la dura battaglia contro la riforma della legge sul lavoro portata avanti da movimenti di lotta, sindacati e svariate categorie sociali e individualità che vedono nella loi travail l’ennesimo attacco ai diritti lavorativi e l’avanzamento del neoliberismo. Basta poco però per trovare un nesso tra quel sistema economico messo in discussione nelle piazze francesi e il prossimo grande evento sportivo, perché quello che un tempo era il gioco della classe lavoratrice, the beautiful game, da tempo ormai è occasione per pochi per far profitti da capogiro senza curarsi delle ricadute sociali negative. Propagandati come occasioni di sviluppo, investimenti e lavoro dai massmedia acritici, i grandi eventi sportivi internazionali in realtà portano con sé sfruttamento della manodopera a basso costo ancora più brutale del solito, corruzione e spreco di denaro pubblico, emarginazione, censura e riduzione della libertà di espressione, militarizzazione e violenza nei confronti di poveri, emarginati, dissidenti e di chiunque si senta penalizzato/a e abbia intenzione di farlo pubblicamente presente… il tutto per la gioia di grandi imprese, investitori e pochi burocrati collocati ai piani alti della piramide capitalista, che si accordano tra loro come meglio gli conviene senza aver bisogno di chiedere il permesso, dal momento in cui a dare permessi sono loro. La memoria di molti è breve e la distrazione grande nel pensare ad un pallone che rotola, quindi sarà meglio ricordare un paio di cose tra tante:

…e Francia, Duemilasedici. Stavolta forse non basterà il richiamo al patriottismo da due soldi o alla grande occasione per l’economia per distrarre chi lotta, come non bastò in Brasile due anni fa. Quella volta il potere si fece largo, nel nome dell’orribile guadagno, a suon di ruspe, bastonate, lacrimogeni e pallottole e l’attenzione mediatica si spostò altrove dopo la fine del mondiale. In Francia è più probabile che si faccia leva sull’aspetto securitario a fronte dei recenti attentati di matrice fondamentalista islamica per spaventare ma soprattutto reprimere con la forza qualsiasi forma di dissenso e lotta durante lo svolgimento del teatrino calcistico. È solo una possibilitá, un timore: il futuro comunque è ancora tutto da scrivere.

In Francia si estendono le proteste contro la legge di riforma del lavoro.

Nonostante le minacce del governo e la violenza messa in campo dalle “forze dell’ordine (costituito!)”, si inaspriscono ed estendono in Francia le proteste contro la riforma del lavoro. Per saperne di più consiglio la lettura del seguente articolo ripreso da Infoaut; per altre informazioni e analisi da una prospettiva anarchica/libertaria, suggerisco di seguire i siti di Alternativa Libertaria e del sindacato CNT-F .

“Francia. Dopo le raffinerie, i manifestanti annunciano blocco delle centrali nucleari

I muscoli sono sempre più tesi in Francia nel contesto del braccio di ferro tra il movimento contro la Loi travail e il governo. Da diversi mesi studenti, giovani precari, sindacati e lavoratori immigrati chiedono il ritiro del jobs act francese con impotenti manifestazioni rifiutandosi di accettare ogni mediazione col governo di Manuel Valls. Numerosi in queste ultime settimane sono anche stati gli scontri con le forze dell’ordine viste da più parti come le truppe al soldo di uno dei governi più impopolari della storia della repubblica.

Se in Italia in Italia i sindacati sembrano ormai convinti che scioperi e assemblee sindacali siano possibili soltanto quando non creano “disagi” (ossia quando sono inefficaci), la strategia dei sindacati in Francia è ormai sempre più chiaramente quella di colpire gli interessi economici francesi per costringere il governo a indietreggiare. Già da diversi giorni numerosi porti, raffinerie e depositi di carburante sono bloccati grazie agli scioperi e ai picchetti provocando la reazione scomposta da parte del primo ministro Manuel Valls che ha dichiarato che ci sarà tolleranza zero verso i manifestanti. Martedì a Fos-sur-mer la polizia è intervenuta con una violenza inaudita usando lacrimogeni e un bulldozer mentre stamattina gli agenti sono arrivati a Douchy-les-Mines dove i manifestanti hanno dato alle fiamme barricate di copertoni prima di essere costretti a lasciare i presidi. Tutte le otto raffinerie che si trovano sul territorio francese sono parzialmente o completamente bloccate, suscitando la collera del padrone di Total che ha minacciato ieri di rivedere gli investimenti del gruppo nel paese nel tentativo di spaventare i lavoratori. Ai tentativi d’intimidazione si risponde con l’occupazione di nuovi snodi logistici con l’obiettivo di bloccare tutto: diventiamo ingovernabili è lo slogan che risuona da più parti in risposta alle proposte di dialogo offerte dal governo. Il ricatto degli appelli alla democrazia e alla moderazione sembrano infatti cadere nel vuoto davanti a un movimento sicuro delle proprie ragioni: “Conosciamo le nostre responsabilità, che il primo ministro prenda le sue ritirando la legge sul lavoro. Da qui non uscirà più una goccia di petrolio” ha dichiarato a Le Monde il segretario CGT della Compagnie industrielle maritime. Gli effetti si fanno ormai sempre più evidenti anche sulle pompe di benzina, centinaia di distributori sono a secco e lo spettro di una mancanza generalizzata di combustile si fa sempre più concreta con il segretario di Stato ai trasporti che ha ammesso che il governo ha iniziato ad utilizzare le riserve strategiche di prodotti petroliferi.

Ieri il sindacato ha deciso di giocare una nuova importante carta, minacciando il blocco delle centrali nucleari per domani, giorno dello sciopero generale. “Le sorti del progetto di legge si giocano ora, quindi è ora che bisogna agire” ha dichiarato il portavoce della CGT-energia “facciamo appello a tutto il personale per fare salire la pressione sul governo attraverso l’abbassamento della tensione elettrica o tagliando direttamente l’energia sulla rete”. Alla centrale Nogent-sur-Seine i lavoratori hanno già comunicato l’adesione allo sciopero e i tagli di corrente dovrebbero provocare l’arresto di almeno due dei reattori del complesso. Dei “sabotaggi” sulla rete elettrica hanno già avuto luogo ieri a Plan de Campagne, nei dintorni di Marsiglia, dove i dipendenti del più grande centro commerciale d’Europa hanno rivendicato di aver fatto saltare la corrente in opposizione alla Loi travail. “

Sulla riforma del lavoro in Francia.

Il seguente articolo, che analizza la legge sulla riforma del lavoro proposta dall’attuale governo francese e le lotte sociali che ad essa si oppongono, è tratto dal sito di Umanità Nova. Segnalo anche un altro articolo pubblicato su Z-Net Italy, che affronta lo stesso argomento da una prospettiva non anarchica, soffermandosi maggiormente sull’aspetto governativo-istituzionale-parlamentare-partitico. Buona lettura!

” Blocchiamo tutto!

loi_travail-35-2“L’obiettivo è quello di adattarsi ai bisogni delle imprese”
Myriam El- 

Da un’intervista al settimanale Les Echos del 19 febbraio 2016
Chi, in Italia, si prendesse la pena di leggere cosa comporta il disegno di legge proposto da Myriam El Khomri, la giovane (ha solo 38 anni) ministra del Lavoro, che presentandolo si è conquistato un ruolo nella storia nazionale della , farebbe una scoperta a ben vedere nemmeno troppo sorprendente: fatto salvo che i nostri fratelli d’oltralpe non chiamerebbero mai una legge con termini inglesi, è assolutamente simile all’italianissimo Jobs Act.
Le questioni che vengono affrontate con toni, per la verità, non dissimili da quelli ai quali ci ha abituato l’attuale governo, sono infatti:

Possibilità per gli accordi aziendali di andare in deroga ai contratti di categoria e allo stesso codice del lavoro. Un apologeta ingenuo, o sedicente tale, della democrazia diretta e del federalismo radicale potrebbe far rilevare che si deve lasciare ai lavoratori ed alle lavoratrici la possibilità di peggiorare liberamente le proprie condizioni di vita e di lavoro. Noi che siamo di animo cattivo, siamo portati a ritenere che una liberalizzazione del genere in un contesto capitalistico non possa che produrre una esasperazione ulteriore della concorrenza fra gruppi di lavoratori sottoposti, a livello nazionale e internazionale, alla pressione della minaccia delle delocalizzazioni se non della chiusura dell’azienda.

Maggiore possibilità di licenziare, sia per ragioni “economiche”, sia per ragioni disciplinari; indebolimento del ruolo della magistratura del lavoro che ha in Francia caratteristiche specifiche assai diverse da quella italiana, visto che si tratta di giudizi eletti dai lavoratori e dalle imprese; riduzione secca delle cifre che si possono percepire nel caso di licenziamenti ingiustificati.
Taglio rilevante del sussidio di disoccupazione che andrebbe a colpire sia la massa crescente dei lavoratori precari, che piombano regolarmente nella condizione di disoccupato, che i lavoratori a tempo indeterminato più facilmente licenziabili. Insomma si riducono contemporaneamente i diritti dei lavoratori e quelli dei disoccupati.
Estensione della giornata lavorativa e taglio degli straordinari. L’ipotesi contenuta nella legge è di rendere possibili giornate di 12 ore lavorative (ora il tetto è di 10), di permettere che le settimane lavorative di 46 ore in un anno possano essere 16 e non più 12, di tagliare lo straordinario retribuito non con un 25%, come nella precedente legislazione, ma con un 10% in più. Un’ipotesi devastante soprattutto nel settore della grande distribuzione come ben sappiamo in Italia.

Va detto però che, se le riforme del diritto del lavoro italiana e francese sono, per ovvie ragioni, simili, la reazione delle lavoratrici e dei lavoratori hanno avuto caratteristiche tanto diverse che, probabilmente (purtroppo) esagerando, vi è stato chi ha parlato di un nuovo maggio francese.
Anche una valutazione più prudente non può tuttavia sottovalutare il fatto che, da più di un mese, la Francia vede un susseguirsi di scioperi e manifestazioni, una dialettica sindacale vivace come non si vedeva da anni, e la discesa in campo di parti del mondo intellettuale, e che ciò avviene contro un governo di sinistra e, per la verità, più di sinistra – ammesso che il termine abbia ancora un senso preciso – di quello italiano.
Non si tratta di esultare per l’ennesima riprova dell’impotenza del riformismo, sappiamo bene che i fallimenti del Partito Socialista Europeo nel suo pretendersi altro rispetto alla destra non aprono meccanicamente la strada ad ipotesi e pratiche sovversive, ma di prendere atto del fatto che, piaccia o meno, sul terreno della politica intesa come attività separata e professionale, non vi sono spazi degni di nota per scelte diverse rispetto a quelle dettate dagli interessi delle effettive élites del potere.
Una giovane ministra, una ministra socialista che potrebbe essere guardata con istintiva simpatia da chi si batte contro le discriminazioni su base sessuale ed etnica, propone una legge che devasta il diritto del lavoro, che apre lo spazio al pieno dispiegarsi, mi si consenta il gioco di parole, del dispotismo aziendale, e non lo fa perché “tradisca” qualcosa o qualcuno ma perché il ruolo assegnatole è quello ed a lei, come ai suoi sodali, sta solo applicare quanto viene deciso altrove.

D’altro canto, sul terreno della soggettività, la situazione libera energie ed apre percorsi. Riporto parte di un documento interessante, l’appello “Blocchiamo tutto!”, firmato da oltre 500 militanti sindacali che vanno dai maggioritari ed istituzionali CGT, Force Oubriere, FSU a sindacati di opposizione come SUD e CNT:

“Il disegno di legge El Khomri è un insulto al mondo del lavoro. Raramente l’attacco è stato altrettanto pesante. Con l’inversione della gerarchia delle norme che permette agli accordi locali o aziendali al ribasso, ottenuti sotto ricatto, di sostituirsi agli accordi nazionali di categoria; lanciando l’offensiva contro lo strumento sindacale, tramite la promozione di referendum-bidone nelle singole imprese; organizzando e generalizzando la precarietà, la flessibilità e facilitando i licenziamenti, è una degradazione ulteriore del tempo e delle condizioni di lavoro di milioni di salariati quello a cui il Governo si sta preparando attivamente […]
La riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore settimanali, senza riduzioni salariali, senza flessibilità, senza sconti o prese in giro, come sono effettivamente state in molti settori le “35 ore-Aubry”: ecco per esempio cosa è prioritario fare per contrastare il deterioramento delle condizioni di lavoro e imporre la creazione di veri posti di lavoro.

È insieme che andiamo alla lotta, è insieme che vinceremo!”

La richiesta delle 32 ore senza caratteristiche negative delle 35 ore concesse anni addietro per addomesticare l’opposizione sociale, quali la flessibilità e le deroghe, non è, di per sé, “rivoluzionaria”, ma pone al centro dell’agenda politico sindacale, contemporaneamente, la necessità di andare all’attacco e quella di una proposta capace di tenere assieme il mondo del lavoro salariato.
Soprattutto siamo di fronte ad un percorso unitario, non prodotto da alchimie organizzative, da trattative fra gruppi dirigenti, da operazioni di partito o, almeno, non principalmente da dinamiche di questa natura, ma dallo sviluppo del conflitto di classe.
La stessa considerazione, e ciò ha un valore ancora maggiore, va fatta sulla presenza massiccia, nella mobilitazione, di lavoratori e studenti di origine magrebina o dell’africa sub sahariana, in un paese segnato drammaticamente dal terrorismo Jihadista, da derive securitarie, da una tradizione nazionalista insopportabile.
C’è, in altre parole, da prendere atto del fatto che quando si verifica una mobilitazione con piattaforme chiare, sia in negativo (NO alla “riforma” del lavoro), sia in positivo, in quanto ricca di potenzialità sui temi dell’orario e dell’organizzazione del lavoro, sul salario, e sui diritti, la partita capitale-lavoro risulta oggi pienamente aperta, non nelle periferie del sistema mondo, ma in una nazione di medio rilievo situata nel cuore della fortezza Europa come la Francia.
La Francia gioca, insomma, oggi, un ruolo centrale, già immaginato da un famoso letterato tedesco dell’800 che ebbe ad affermare con tono oracolare:

“La filosofia non può realizzarsi senza l’eliminazione del proletariato, il proletariato non può realizzarsi senza la realizzazione della filosofia. Quando tutte le condizioni interne saranno adempiute, il giorno della ‘resurrezione tedesca’ sarà annunziato dal ‘canto del gallo francese’”

In ogni caso, il ‘canto del gallo francese’ andrà ascoltato con grande attenzione anche da questa parte delle Alpi oltre che al di là del Reno.

Il fondo del barile.

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Il 17 Aprile si terrà in Italia un referendum che propone l’abrogazione della legge che consente lo sfruttamento illimitato, “a vita”, dei giacimenti petroliferi in zona marina. A prescindere dalla mia opinione sullo strumento referendario, da molti definito una forma di democrazia diretta sancita dalla Costituzione, da me ritenuto invece un contentino distrattivo per chi vorrebbe attivarsi per influenzare le decisioni politiche prese da pochi/e nell’interesse di pochi/e sulla pelle di tutti/e, ritengo interessante condividere alcune informazioni trovate sul blog “Paradisi Artificiali”, che potrebbero aiutare a comprendere meglio su cosa verte la questione delle trivellazioni anche al di là del referendum. A me pare evidente che il governo italiano stia mostrando per l’ennesima volta (banche fallimentari e TAV sono altri due esempi fra i tanti che potrei citare) il proprio volto lobbista e clientelare e stia tentando disperatamente di illudere i/le potenziali elettori/trici sul tema della ripresa economica, sul rilancio del made in Italy, sulla difesa dei posti di lavoro e sull’autosufficienza energetica, insomma stia ancora raschiando il fondo del barile. Di petrolio, stavolta. Pertanto mi prendo la briga di segnalare una riflessione, che considero almeno in buona parte condivisibile, sul tema delle trivellazioni e del referendum, pubblicata su InfoAut. Non solo vi invito alla lettura, ma come sempre ad una riflessione più ampia sui risvolti che presenta il tema in questione, dalla contrapposizione fra occupazione e salvaguardia ambientale al paradigma fallimentare e distopico dello sviluppo infinito dell’economia capitalista, alla scelta delle energie rinnovabili tra limiti,  potenzialità e alternative al nostro attuale stile di vita… Non si tratta di questioni astratte o lontane, ma faccende che ci riguardano tutti/e e con le quali siamo costretti/e a fare i conti, volenti o nolenti, prima che sia davvero troppo tardi.

Padre Pio Superstar!

Tra santi, beati, prelati e altre figure della chiesa cattolica romana, uno dei miei preferiti è e rimarrà sempre Padre Pio…pardon, San Pio! Senza dubbio la sua storia merita di venir conosciuta e approfondita visti i risvolti allucinanti e altamente comici legati al suo culto ed alla sua beatificazione e, successivamente, santificazione. Nonostante gli sforzi da me costantemente compiuti nel tentare di non considerare automaticamente gli aderenti ad una qualsiasi religione come persone da compatire, devo confessare che chiunque si riveli a me come ammiratore, estimatore, seguace et similia del frate di Pietralcina perde ai miei occhi gran parte della propria credibilità e affidabilità più rapidamente di quanto non avvenga con altri “credenti”, perchè se c’è un personaggio rappresentativo più di altri della cialtroneria delle religioni organizzate e della loro grossolana strategia di marketing a uso e consumo di masse esagitate (e direi fulminate, se non fosse che per essere fulminato uno dovrebbe essere stato prima illuminato), quello è proprio San Pio. Fatte le mie brevi considerazioni, in questo spirito (santo, naturalmente) segnalo un articolo sulla visita di Pio (no, non il pulcino!) a Roma/Città del Vaticano, durante l’attuale Giubileo. Magari non firmerà autografi, ma un selfie non ve lo negherà di certo!

Acido fenico, santità e silicone. È arrivato Padre Pio!

Kazova, un’esperienza autogestionaria dalla Turchia.

La fabbrica tessile turca Kazova è stata per una sessantina d’anni un centro di produzione di maglioni di lusso a Istanbul, fino a quando nel Febbraio del 2013 il padrone decide di chiuderla. 94 operai/e rimangono senza lavoro e con cinque mesi di stipendio non pagati, alcuni/e di loro decidono di organizzare picchetti per evitare che il “proprietario” porti via i macchinari dallo stabilimento, da lui già danneggiati, dopodichè, a seguito delle proteste di Gezi Park avvenute durante l’estate dello stesso anno, occupano la fabbrica. È durante tali proteste che nascono numerose esperienze autogestionarie come assemblee (forum) di quartiere, che in parte rimangono in vita nonostante la brutale repressione poliziesca e lo sgombero di Gezi Park. In questa fase i/le lavoratori/trici resistono allo sgombero della fabbrica, vendono alcuni macchinari danneggiati per acquistarne altri e si costituiscono in cooperativa, ma soprattutto intrecciano legami con individualità e collettivi nati durante le proteste, ricevendo attenzione e solidarietà a livello nazionale e internazionale. A Novembre riparte la produzione di maglioni. Tra l’Agosto del 2014 e il Marzo del 2015 avvengono numerosi cambiamenti nella cooperativa a seguito dei quali i/le protagonisti/e dell’esperienza di autogestione si dividono: mentre la maggior parte di loro rimangono organizzati/e nella cooperativa Diren Kazova (Kazova resiste), altri/e cinque creano un’altra società sotto il nome di Özgür Kazova (Kazova libera). La Diren Kazova, legatasi all’organizzazione marxista DIH, si pone teoricamente come obiettivo il raggiungimento di standard lavorativi superiori alla media e accusa i “fuoriusciti” dalla cooperativa di aver abbracciato le idee capitaliste perchè i profitti verrebbero utilizzati per aumentare gli stipendi, d’altro canto i membri della Özgür Kazova raccontano di come una parte del denaro raccolto da iniziative internazionali di solidarietà sia stato fatto sparire per scopi privati da lavoratori/trici rimasti nella Diren o sia confluito senza previo consenso collettivo nelle casse del DIH. Inoltre gli stessi lavoratori/trici della Diren ammettono (in un’intervista del 2014, nel frattempo la situazione potrebbe essere cambiata…) il persistere di divisione del lavoro, alienazione e standard lavorativi insoddisfacenti. Anche i processi decisionali della Özgür risultano, da quanto riportato da osservatori esterni (sempre nel 2014), più trasparenti e orientati all’autogestione di quelli della Diren, che pare essere stata praticamente cooptata dal DIH. Al di là dei conflitti e delle differenze tra le due realtà produttive, entrambe (almeno stando alle ultime notizie che ho a disposizione) esistono e producono. Diren Kazova dispone di diversi punti vendita ad Istanbul, Özgür Kazova ha trovato una nuova locazione per la produzione e dispone di un sito internet in diverse lingue nel quale presenta i propri prodotti tessili che possono venir ordinati tramite posta elettronica.

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“Stiamo cercando di creare un precedente con i primi “maglioni senza padrone”, nati proprio da una fabbrica che vendeva un singolo maglione a 150 euro, e pagava gli operai – che ne producevano migliaia al giorno con orari massacranti – 450 euro al mese. Noi li produciamo uguali, li vendiamo a meno e dividiamo equamente i proventi”, affermava un’operaio della Özgür Kazova in un’intervista di un’anno fa, ma non è tutto: i/le protagonisti/e di questa realtà sono orgogliosi/e di aver preso in mano le redini del proprio destino. Sono riusciti/e a creare una nuova realtà in un contesto difficilissimo, in un Paese con una legislazione decisamente ostile ai sindacati, senza particolari esperienze politiche o di lotte lavorative, tra repressione e privazioni economiche, ma resistendo nonostante tutto con la loro forza di volontà e grazie ai legami di quartiere stabiliti durante e oltre le proteste popolari avvenute a Istanbul e alla solidarietà. Autogestendosi in modo orizzontale e praticando forme di solidarietà diffuse intendono svincolarsi dalle logiche capitaliste di sfruttamento, gerarchia e profitto, facendo loro sette punti fondamentali:una struttura produttiva basata sull’associazione volontaria, un modello economico fondato sulla spartizione ugualitaria, autogestione democratica fra membri, una produzione indipendente basata sull’autogestione dei lavoratori stessi, educazione permanente e condivisione delle conoscenze, cooperazione fra cooperative, solidarietà concreta con tutte le lotte sociali.Risultati immagini per Özgür kazova