Como: quando la solidarietà coi migranti è “socialmente pericolosa”.

Ho ricevuto pochi giorni fa una lettera con la richiesta di diffonderla. Si tratta del racconto di un compagno colpito da un provvedimento repressivo comminatogli dalle autorità a causa della sua attività a favore dei migranti concentrati a Como a seguito della chiusura della frontiera con la Svizzera:

Lettera aperta dal confino

FABIO ACHAB·VENERDÌ 14 OTTOBRE 2016

Buongiorno a tutti,

Sono Fabio Gabaglio, ieri mattina mi è stato notificato un “foglio di via” da Como della durata di un anno. In questo atto mi si accusa di avere preso parte ad una manifestazione non autorizzata in cui si denunciava la complicità della ditta di trasporti Rampinini nella deportazione dei migranti, di essere una persona socialmente pericolosa e di frequentare la città di Como col solo scopo di compiere reati. Con questa lettera aperta, per chi avrà la pazienza di leggerla, io intendo spiegare il mio punto di vista, rivendicare pubblicamente il mio operato, la mia identità e produrre quella difesa politica che in altre sedi non mi è consentito di dare. La doverosa premessa è quella che fa dei lettori a cui mi rivolgo, dei “giudici impectori”, il cui giudizio è quello che maggiormente m’importa, supponendo che anch’essi, come me, si pongano propositi di cambiamento radicale della società, interpretando il presente come profondamente ingiusto. Dal luglio scorso, quando la città di Como si è trovata al centro di quella che è stata definita “emergenza migranti”, ho iniziato ad interessarmi a quanto stava accadendo tra il confine Italo-Svizzero e la stazione di Como san Giovanni. Una sorte ironica fece che tutto il mio tempo libero, ferie incluse, lo trascorsi in quello che è anche un mio luogo di lavoro, in quanto di mestiere sono Macchinista Ferroviere. La storia è nota, ma non è mai superfluo ripeterla: L’autorità doganale svizzera chiude quasi completamente le dogane ai numerosi profughi che tentano di attraversarla e ai richiedenti asilo che vi si vorrebbero insediare, e a Como si crea quindi un ingorgo e l’accampamento che tutti abbiamo conosciuto. Chi cerca di passare il confine viene respinto a piedi sul suolo italiano nel migliore dei casi, altrimenti viene deportato nei centri di smistamento del sud Italia, Taranto quasi sempre. Con alcuni sodali decido esprimermi e spendermi sulla questione dando un apporto politico all’enorme e meritorio sforzo civile che la città, la parte migliore della città, ha profuso per dare ai “Ragazzi” un’ accoglienza dignitosa, un trattamento umano e un sostegno materiale. Il mio proposito aggiuntivo è quello di animare il dibattito generale sulla questione migratoria, ponendo degli interrogativi politici sugli interessi che influenzano la gestione dei flussi ed evidenziando le innumerevoli contraddizioni che ne emergono. Iniziai cosi, implementando il lavoro quotidiano di centinaia di volontari, a produrre una critica che spingesse ad andare oltre il livello della necessaria accoglienza che da più attori viene messa in campo, per costruire una solidarietà diretta, capace di mettere in relazione la condizione dei migranti, vittime estreme del sistema economico in cui viviamo, e la nostra, di indigeni, esposti agli effetti della crisi e della conseguente precarizzazione totale delle nostre vite. Per farlo in modo organico, occorreva però toccare con mano le questioni, conoscerle a fondo, e mediante l’inchiesta, guadagnarsi la libertà di parola, il titolo di potersi esprimere a ragione veduta. La prima iniziativa per cui mi spesi in prima persona fu il 7 agosto, una giornata di giochi, sport e socialità. Bastarono quattro palloni, un paio di canestri da basket, e una merenda collettiva per scoprire che quello che ne sarebbe seguito sarebbe stato molto di più della semplice inchiesta politica, ma sarebbe diventato anche una relazione di profonda amicizia, di empatia, di auto-riconoscimento. Senza quasi rendersene conto il rapporto si strinse molto, il “noi” ed il “loro” si fusero, i nomi impronunciabili e forestieri divennero familiari, e quelli che rifiutammo di considerare “utenti-destinatari” della nostra elemosina divennero compagni delle nostre infinite giornate campali, narratori delle storie più incredibili, portatori della più legittima delle volontà. E noi ne diventammo complici. Si sperimentò un percorso di autogestione da cui nacque l’infopoint: un gazebo in cui si cercava di dare le principali informazioni pratiche e una primissima accoglienza materiale (cibo e vestiti) a chi arrivava al “campo informale”, si organizzarono corsi di italiano ed inglese, e ogni sera si tenevano riunioni interetniche tradotte in inglese, arabo, francese, tigrino, amarico, oromo… Fu in questo contesto di confronto virtuoso che si decisero le molte e diverse iniziative messe in campo, tra le quali la lettera aperta che i migranti scrissero alla città, il presidio tenuto a Pontechiasso, dove decine di migranti reclamarono il loro diritto di superare il confine e di non essere trattati da animali, e il corteo del 15 settembre, forse il più bello che nei miei trent’anni (molti dei quali vissuti da militante politico) possa ricordare, e per il quale personalmente chiesi l’autorizzazione alla questura. Quel corteo per me fu una scommessa: 500 persone dalle più diverse sensibilità ed esperienze, migranti in testa, veicolavano il messaggio lanciato dall’appello, “Il campo non è una soluzione, aprite il confine!”. Rimandate al al mittente le provocazioni dei fascisti che minacciarono costantemente la coda del corteo, disattese le aspettative allarmiste di chi paventava la calata dei barbari in città, dissolta la coltre di terrore imposta dallo sproporzionato spiegamento di militari, il corteo, fortemente comunicativo, sfilò per la città senza intoppi. La scommessa fu vinta. Il clima tuttavia cambiò repentinamente quando aprì il campo governativo, la non-soluzione sulla quale sollevammo tanti dubbi e contro la quale gli stessi migranti si sono sempre espressi. Nei giorni immediatamente precedenti alla sua apertura la solidarietà iniziò ad essere sempre più criminalizzata, cucinare o portare cibo divennero pretesti per far intervenire la polizia, le docce e la mensa vennero chiuse, e i migranti, in un paio di giorni, furono costretti a lasciare i loro ripari di fortuna per entrare nel campo governativo. I dubbi diventarono certezza quando la natura del campo governativo si manifestò in tutta la sua burocratica freddezza. Le garanzie date dal prefetto sul funzionamento del campo furono prontamente disattese, le richieste di modelli alternativi di accoglienza non furono accolte, le tutele specifiche per minori non vennero attuate, il regolamento interno non fu pubblicato, i volontari furono estromessi, e chi riponeva speranze nel “circuito legale dell’accoglienza” rimase amaramente deluso. Lo stato così ha ripreso il controllo della situazione anche fuori dal campo, tutto quello che prima era socialmente accettato e tollerato, ora è proibito. Distribuire cibo, incontrare, parlare con chi ha l’aspetto di un rifugiato, porta ad essere identificati, intimiditi, segnalati. Trovare un riparo di fortuna per chi non ha accesso al campo governativo è reso quasi impossibile dalle decine di pattuglie che ogni notte perlustrano ogni angolo di Como, ogni anfratto, con l’ordine di sgomberarlo, di rendere inospitale la città, cercando in questo modo di arrestare il flusso in arrivo. E su Como, la città bella e solidale che riscoprimmo quest’estate, cala un invernale clima di apartheid. Ora al sottoscritto, come ad altri attivisti, viene presentato il conto per il ruolo attivo tenuto in tutto questo. Il foglio di via, nella fattispecie, è una misura preventiva di natura fascista, in cui il questore, senza una vera e propria indagine, senza un processo e senza la possibilità di difesa, intima arbitrariamente al destinatario di non fare ritorno su un determinato territorio, riconoscendo in lui una presunta pericolosità sociale. La reale intenzione di chi emette questa misura non è tuttavia punire qualcuno per un reato specifico commesso, ma semplicemente colpirlo ed allontanarlo per le proprie idee e per le pratiche che potenzialmente ne derivano, isolandolo dai suoi percorsi di lotta e dal contesto sociale in cui è inserito. Nel mio caso, accade che ieri, 13 ottobre, mentre presenziavo in qualità di uditore alla conferenza stampa tenuta dalla rete di “Como senza frontiere” di fronte al campo governativo vengo avvicinato da alcuni funzionari di polizia che mi intimano di presentarmi in questura per notificarmi un foglio di via obbligatorio che mi inibisce dal fare ritorno nel comune di Como per un anno. Mi si contesta nello specifico di aver manifestato contro la ditta di trasporti Rampinini, che dal luglio scorso si occupa anche di deportare i migranti, che respinti in Italia dal confine elvetico, vengono caricati su dei pullman e, scortati da un ingente pattuglia di polizia, sono spediti nell’hotspot di Taranto, contro la loro volontà, senza avere contezza del loro status giuridico, interrompendo, mortificando e umiliando in maniera violenta il loro progetto migratorio, che per queste persone, rappresenta l’umana e innata pulsione a migliorare la propria condizione materiale. Per rimettere questa azienda davanti alla sua palese responsabilità di collaborazionista il 12 settembre si è tenuto un presidio simbolico davanti alla sua sede di via Napoleona, in cui si diffondeva un volantino e si esponeva uno striscione: Rampini complice delle deportazioni. Lo scrivevamo allora, lo ribadisco ora, assumendomi la responsabilità di quanto fatto. Se esprimere questo, senza chiedere il permesso a chi quelle stesse deportazioni le dispone e le realizza sia più vergognoso dello stesso compierle, lo lascio decidere a voi. Questo foglio di via mi descrive inoltre con l’infamante appellativo di “persona socialmente pericolosa”, che usa frequentare Como “col solo scopo di commettere reati” e di accompagnarmi a persone già oggetto di “segnalazioni all’autorità giudiziaria.” Io credo, che se vi sia una minaccia reale per la società, essa stia proprio nel fatto che certe dittatoriali limitazioni della libertà personale possano essere comminate a chi invece è parte integrante della società, a chi ne anima i moti di cambiamento, a chi ha la pretesa attiva di renderla più giusta, includente e civile. Essere riconosciuto come frequentatore abituale del campo informale della stazione è una cosa di cui non mi vergogno affatto. Farlo in concorso con altri solidali non ritengo sia un aggravante. Essermi riunito innumerevoli volte con dei migranti, averci discusso, essermi organizzato con loro per dare voce alle comuni istanze è una cosa di cui non sono in alcun modo pentito. Sfidare il clima di piombo che si respira in città per continuare a mantenere il rapporto con i migranti incontrati fino ad oggi, o per costruirlo ex novo con chi tuttora continua ad arrivare, non credo faccia di me un pericolo sociale. Ebbene, con questo foglio di via, la questura, l’apparato immunitario dell’ingiusto sistema politico-legale che abbiamo di fronte, pone nella mia vita un ostacolo giuridico che si frappone tra me ed i miei propositi che lascio a voi giudicare. La città di Como inoltre, come è normale che sia, per me, rappresenta anche un luogo fisico in cui si intrecciano interessi personali, abitudini, relazioni sociali ed affettive dalle quali ora con questo provvedimento si cerca di isolarmi in un assurdo accanimento. É lì che abitualmente trascorro il mio tempo libero, è lì che sono solito incontrarmi con amici e amiche, è lì che talvolta mi trovo a esercitare la mia professione, ed è lì che voglio liberamente poter tornare. Lungi dal voler elemosinare la pietà di alcuno, io credo che il mio dovere, a fronte di quello che mi è toccato, sia in primis mettere in guardia ognuno di voi: quello che oggi si abbatte su di me, domani potrebbe succedere ad altri. Quando il divario tra legalità e giustizia si fa così sfacciatamente evidente tutti sono chiamati a prendere una posizione. Ed è quello che io ora vi chiedo. Grazie della vostra attenzione. La parte più bella di questa città rifiuta il razzismo e l’indifferenza, e io sono (ancora) lì. Fabio Gabaglio ”

Il sito Informa-Azione riporta un comunicato di persone colpite dallo stesso provvedimento, nello stesso contesto, che annunciano resistenza contro le misure restrittive imposte dalla Questura.

Controinformazione sul terremoto nel Centro Italia.

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Come ci viene raccontato dai massmedia il terremoto che in Italia ha colpito la zona appenninica compresa tra Lazio, Marche e Umbria provocando la distruzione di interi paesi, la morte di più di 300 persone e lo sfollamento di altre migliaia? Più che informazione corretta e scientifica, unita ad una seria e impietosa riflessione sull’impreparazione a tali catastrofi naturali tremendamente aggravate sia dall’incuria che dalla cinica speculazione umana, l’evento viene spettacolarizzato in chiave emotiva. Gli sciacalli sono lì alla ricerca di dettagli macabri, storie strappalacrime, immagini simbolo che devono tenere incollati/e i/le telespettatori/trici allo schermo, piangono lacrime di coccodrillo mentre pensano alla grande occasione di profitto che riempirà le tasche di pochi. Esiste però un altro tipo di mentalità e quindi un modo molto diverso di fare informazione e vorrei qui fornirne degli esempi, riportando alcuni articoli “di parte”, contro-informativi, contenenti testimonianze critiche, osservazioni tecniche e notizie utili su come aiutare sfollati/e e sopravvissuti/e:

Terremoto, e tutto tornerà come prima”, di Zatarra su Alternativa libertaria;

“Solo le montagne sono serene”, su Malamente;

“Terremoto: aumenta la solidarietà popolare e dal basso contro sciacalli, razzisti e istituzioni”, su InfoAut.

 

Too little, too late: gli assassini razzisti Zimmerman e Roof assaggiano un pò di giustizia.

Un ragazzo di colore cammina per le strade di Sanford, Florida, USA. Ha in mano un pacchetto di caramelle e una bibita, la testa coperta dal cappuccio della sua felpa per ripararsi dalla pioggia. Va di fretta, sta andando a casa della fidanzata del padre. È la sera del 26 febbraio del 2012. Il ragazzo si chiama Trayvon Martin, ha diciassette anni e non arriverà a compierne diciotto: un vigilante privato gli spara a seguito di una colluttazione dopo averlo seguito credendolo, a suo dire, un malintenzionato sotto l’effetto di droga. Il vigilante, tale George Zimmerman, viene processato per omicidio di secondo grado e, il 13 Giugno del 2013, la giuria lo dichiara innocente. Il caso scatena negli USA un acceso dibattito sul razzismo e su una controversa legge di matrice repubblicana in materia di diritto all’autodifesa, la “Stand-your-ground law“. Zimmerman viene da più parti tacciato di razzismo, cosa che lui nega sottolineando le sue origini latinoamericane e portando a testimoniare a suo favore in tribunale alcuni suoi amici di colore. Di certo non si tratta del primo razzista a non avere un pedigree da WASP, né del primo razzista ad avere qualche “amico di colore” da mettere in bella mostra come alibi, così come è certo che Zimmerman non ha un gran bel carattere, essendo stato coinvolto, dopo il processo, in alterchi durante i quali ha fatto uso di violenza fisica e mostrato senza troppi problemi un’arma da fuoco. A proposito di arma da fuoco: quella usata per freddare Trayvor Martin è stata venduta all’asta da Zimmerman lo scorso Maggio per 250mila $, denaro con il quale egli dichiara di voler sostenere non meglio specificati “gruppi d’interesse”.

La Mother Emanuel African Methodist Episcopal Church, è una chiesa di Charleston, nella Carolina del Sud, USA, fondata nel 1816 dopo la scissione dalla chiesa metodista bianca nella quale dominava il razzismo. Uno dei membri fondatori fu Denmark Vesey, uno schiavo che comprò la propria libertà con il denaro vinto ad una lotteria, ma che non riuscì coi pochi soldi risparmiati col suo duro lavoro di muratore ad affrancare la moglie e la figlia, anch’esse schiave. Nel 1822 Vesey venne impiccato insieme ad altri 34 uomini dopo un processo svoltosi in segreto per essere stato accusato di aver organizzato una cospirazione atta ad uccidere i proprietari di schiavi a Charlestone, liberare gli schiavi e fuggire ad Haiti. La Mother Church venne bruciata da razzisti bianchi. Ricostruita definitivamente solo nel 1865, diverrà quasi un secolo più tardi uno dei centri della protesta per i diritti civili. Quella della chiesa e della comunità di fedeli che l’ha animata nel corso del tempo è una storia notevole, quasi simbolica e non sono in pochi a saperlo. Tra questi il giovane ventunenne suprematista bianco Dylann Roof, che il 17 Giugno del 2015 apre il fuoco sui/lle fedeli radunati/e dentro la chiesa, uccidendone 9. Catturato poche ore dopo dalla polizia, Roof si trova attualmente in carcere, il processo che lo vede imputato è iniziato il mese scorso. Su un sito web registrato da Roof pochi mesi prima che compisse la strage egli esterna le proprie convinzioni sulla superiorità della razza bianca e afferma che è stato l’omicidio di Trayvon Martin ad “aprirgli gli occhi”, perchè sono necessarie “azioni drastiche” per riaffermare il potere bianco in Nord America e in Europa.

Chi semina vento raccoglie tempesta”: un verso biblico che si sente citare spesso. Chissà se quel 17 Giugno di un’anno fa nella chiesa metodista di Charleston, durante l’ora di lettura della Bibbia, si discuteva anche di quel passaggio dell’ Antico Testamento. Di certo si tratta di un detto adatto a commentare quel che è accaduto pochi giorni fa ai due assassini nominati poco sopra. George Zimmerman si trovava in un ristorante nella zona di Sanford l’ultimo fine settimana di Luglio. Notando un tizio con un tatuaggio della bandiera degli Stati Confederati d’America, (la stessa bandiera che Dylann Roof mostra con orgoglio in alcune foto postate sul suo sito web, un simbolo considerato razzista da molti, non solo negli States), gli fa i complimenti e si identifica come “quello che ha sparato a Trayvon Martin”, per confermarlo tira addirittura fuori la carta d’identità. A quel punto un altro avventore del locale, identificato semplicemente come Eddie, si avvicina e gli dice “You’re bragging about that? You better get the fuck out of here” (“Te ne stai vantando? È meglio che ti levi dal cazzo”). Ne segue un’accesa discussione, al termine della quale Eddie sferra un potente cazzotto al volto di Zimmerman, lasciandolo sanguinante con gli occhiali fracassati per poi dileguarsi a bordo di una Harley Davidson prima del sopraggiungere della polizia. Pochi giorni dopo, la mattina del 4 Agosto, Dylann Roof viene assalito da un altro detenuto nel carcere di Charleston, nel quale è recluso in attesa di giudizio. L’aggressore, il 26enne di colore Dwayne Stafford, colpisce Roof provocandogli lividi e abrasioni. Intanto Stafford è appena uscito di prigione in attesa del suo processo che lo vede imputato per rapina: ha potuto pagarsi la cauzione grazie ai 100mila $ donati anonimamente da parecchie persone in un arco di tempo brevissimo su un sito di raccolta fondi appena diffusasi la notizia del pestaggio ai danni di Roof. Uno dei commenti più frequenti che gira per il web riguardo i due casi di giustizia “sommaria” nei confronti dei due razzisti: troppo tardi, troppo poco. A me piace pensare che ci siano persone che ancora hanno il coraggio di non tacere e di non stare ferme di fronte al razzismo ed alle sue manifestazioni concrete e mi piace anche pensare che, almeno qualche volta, anche se in piccolo, chi semina raccoglie.

Andrés Ruggeri, “Le fabbriche recuperate”.

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Andrés Ruggeri, “Le fabbriche recuperate. Dalla Zanon alla RiMaflow. Un’esperienza concreta contro la crisi”, edizioni Alegre, 2014, ISBN 978-88-98841-07-3

Andrés Ruggeri, antropologo presso la facoltà di Lettere e filosofia di Buenos Aires, analizza in questo libro il fenomeno delle imprese recuperate dai/lle lavoratori/trici in Argentina, principalmente a partire dalla crisi economica del 2001 fino ad un paio di anni fa. Abbandonate dai padroni, occupate e rimesse in funzione dai/lle lavoratori/trici in un contesto spesso difficilissimo, le cosiddette fabbriche recuperate in Argentina sono più di 300 e consentono di lavorare a più di 15mila persone: una goccia nel mare dell’economia nazionale, forse, ma secondo l’autore di questo libro un esempio concreto e funzionante di come democrazia di base, mutuo appoggio, autogestione e soddisfacimento dei propri bisogni possano affermarsi anche nei momenti più difficili, in controtendenza rispetto al paradigma capitalista fondato su accumulo del capitale, massimizzazione dei profitti, sfruttamento, precarizzazione, predazione delle risorse e autoritarismo. Ne “Le fabbriche recuperate” vengono analizzati diversi elementi fondamentali, utili a comprendere il fenomeno in questione. Viene illustrato il contesto socio-economico nel quale nascono queste imprese, la loro tipologia, il loro sviluppo negli anni, il ruolo dei sindacati e dei diversi movimenti di lotta ma anche il rapporto spesso difficile o addirittura conflittuale con le istituzioni locali e nazionali, le strategie dei/lle lavoratori/trici e i loro obiettivi, la struttura e l’economia interna delle aziende recuperate ed il loro rapporto con il mercato, il ruolo delle tecnologie. Il tutto senza imbellettare la realtà e senza risparmiare critiche, parlando chiaramente di limiti ed errori, ma sempre sottolineando la genuinità, l’importanza e le potenzialità insite nell’autogestione operaia. Chi peró fosse interessato/a a conoscere meglio le esperienze di autogestione lavorativa in altri Paesi, ad esempio in Italia, dovrà procurarsi altri testi: nel titolo italiano del libro si cita infatti la fabbrica recuperata milanese RiMaflow, ma il libro in questione si concentra quasi esclusivamente sulla realtà argentina. Il che, secondo me, non è un limite e serve anche ad evitare che i contenuti risultino troppo dispersivi, mentre l’analisi di Ruggeri si presenta centrata e sintetica pur offrendo al tempo stesso un quadro generale di solide basi sulle imprese recuperate nel suo Paese e sul movimento, le idee e le forze che hanno permesso che un’aspirazione collettiva divenisse realtà tangibile.

In Francia si estendono le proteste contro la legge di riforma del lavoro.

Nonostante le minacce del governo e la violenza messa in campo dalle “forze dell’ordine (costituito!)”, si inaspriscono ed estendono in Francia le proteste contro la riforma del lavoro. Per saperne di più consiglio la lettura del seguente articolo ripreso da Infoaut; per altre informazioni e analisi da una prospettiva anarchica/libertaria, suggerisco di seguire i siti di Alternativa Libertaria e del sindacato CNT-F .

“Francia. Dopo le raffinerie, i manifestanti annunciano blocco delle centrali nucleari

I muscoli sono sempre più tesi in Francia nel contesto del braccio di ferro tra il movimento contro la Loi travail e il governo. Da diversi mesi studenti, giovani precari, sindacati e lavoratori immigrati chiedono il ritiro del jobs act francese con impotenti manifestazioni rifiutandosi di accettare ogni mediazione col governo di Manuel Valls. Numerosi in queste ultime settimane sono anche stati gli scontri con le forze dell’ordine viste da più parti come le truppe al soldo di uno dei governi più impopolari della storia della repubblica.

Se in Italia in Italia i sindacati sembrano ormai convinti che scioperi e assemblee sindacali siano possibili soltanto quando non creano “disagi” (ossia quando sono inefficaci), la strategia dei sindacati in Francia è ormai sempre più chiaramente quella di colpire gli interessi economici francesi per costringere il governo a indietreggiare. Già da diversi giorni numerosi porti, raffinerie e depositi di carburante sono bloccati grazie agli scioperi e ai picchetti provocando la reazione scomposta da parte del primo ministro Manuel Valls che ha dichiarato che ci sarà tolleranza zero verso i manifestanti. Martedì a Fos-sur-mer la polizia è intervenuta con una violenza inaudita usando lacrimogeni e un bulldozer mentre stamattina gli agenti sono arrivati a Douchy-les-Mines dove i manifestanti hanno dato alle fiamme barricate di copertoni prima di essere costretti a lasciare i presidi. Tutte le otto raffinerie che si trovano sul territorio francese sono parzialmente o completamente bloccate, suscitando la collera del padrone di Total che ha minacciato ieri di rivedere gli investimenti del gruppo nel paese nel tentativo di spaventare i lavoratori. Ai tentativi d’intimidazione si risponde con l’occupazione di nuovi snodi logistici con l’obiettivo di bloccare tutto: diventiamo ingovernabili è lo slogan che risuona da più parti in risposta alle proposte di dialogo offerte dal governo. Il ricatto degli appelli alla democrazia e alla moderazione sembrano infatti cadere nel vuoto davanti a un movimento sicuro delle proprie ragioni: “Conosciamo le nostre responsabilità, che il primo ministro prenda le sue ritirando la legge sul lavoro. Da qui non uscirà più una goccia di petrolio” ha dichiarato a Le Monde il segretario CGT della Compagnie industrielle maritime. Gli effetti si fanno ormai sempre più evidenti anche sulle pompe di benzina, centinaia di distributori sono a secco e lo spettro di una mancanza generalizzata di combustile si fa sempre più concreta con il segretario di Stato ai trasporti che ha ammesso che il governo ha iniziato ad utilizzare le riserve strategiche di prodotti petroliferi.

Ieri il sindacato ha deciso di giocare una nuova importante carta, minacciando il blocco delle centrali nucleari per domani, giorno dello sciopero generale. “Le sorti del progetto di legge si giocano ora, quindi è ora che bisogna agire” ha dichiarato il portavoce della CGT-energia “facciamo appello a tutto il personale per fare salire la pressione sul governo attraverso l’abbassamento della tensione elettrica o tagliando direttamente l’energia sulla rete”. Alla centrale Nogent-sur-Seine i lavoratori hanno già comunicato l’adesione allo sciopero e i tagli di corrente dovrebbero provocare l’arresto di almeno due dei reattori del complesso. Dei “sabotaggi” sulla rete elettrica hanno già avuto luogo ieri a Plan de Campagne, nei dintorni di Marsiglia, dove i dipendenti del più grande centro commerciale d’Europa hanno rivendicato di aver fatto saltare la corrente in opposizione alla Loi travail. “

“Projekt A”, ovvero l’anarchia che esiste.

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“Projekt A” è un documentario realizzato  nel 2015 dai registi indipendenti tedeschi Moritz Springer e Marcel Seehuber. Il documentario, vincitore del premio del pubblico alla Filmfest München, racconta attraverso un viaggio in giro per l’Europa diverse esperienze anarchiche al di là dei cliché su caos e violenza erroneamente legati al concetto di anarchia. Dall’incontro anarchico internazionale svoltosi nel 2012 a Saint-Imier in Svizzera al movimento anti-nucleare tedesco, passando per il sindacato anarchico spagnolo CNT, il progetto Parko Narvarinou ad Atene e il collettivo Kartoffelkombinat di Monaco di Baviera, il film mostra e spiega esempi pratici di anarchia vissuta, forme di autogestione e creazione di progetti solidali, ecologici e collettivi nonostante e contro il dirigismo statale, le logiche di profitto e sfruttamento e le insanabili contraddizioni che affliggono la società nella quale viviamo. La morale può esser riassunta con uno dei miei slogan preferiti: “L’anarchia è ordine senza dominio“. Projekt A viene attualmente proiettato nelle sale cinematografiche di innumerevoli città tedesche e austriache (qui la lista completa).

Più di mille parole.

Ci sono immagini capaci di comunicare verità e spiegare situazioni più di quanto possano fare mille parole. Eppure i discorsi, tanto nella loro profondità e complessità quanto riassunti finchè possibile in poche parole, sono indispensabili, anche se non sempre vengono recepiti. C’è chi antepone paure irrazionali, pregiudizi e informazioni sbagliate e non verificate a fatti e analisi, rifiuta il confronto ed è sordo a qualsiasi argomento. Con queste persone spesso accade di discutere fino allo sfinimento, sempre che stiano ad ascoltare, per poi accorgersi di aver parlato al vento. Si può spiegar loro come tutte le “culture” siano in fondo multiculture, non siano monolitiche, si evolvano col tempo, siano soggette a cambiamenti e commistioni e come la “nostra” non sia necessariamente migliore di altre; si può far presente che le cause che costringono le persone ad abbandonare i luoghi nelle quali sono nate hanno solitamente origini sociali, politiche ed economiche e che per far sì che nessuno/a sia costretto/a ad emigrare è indispensabile risolvere il problema alla radice in un’ottica emancipatoria, egualitaria ed antiautoritaria; si può far presente che gli/le immigrati/e, in determinate circostanze, fanno comodo al capitalismo e quando non fanno più comodo vengono criminalizzati, deportati o costretti comunque a tornare da dove sono venuti o ghettizzati nel Paese nel quale si trovano; si può ricordare come colonialismo e imperialismo abbiano gettato le basi per le tragedie odierne che hanno luogo in Siria, Iraq, Mali, Nigeria, Somalia, Libia, Afghanistan e altrove, si può far presente come ancora oggi ai potenti nostrani faccia comodo supportare dittature, tacere sulle violazioni dei diritti umani, fomentare divisioni etnico-tribali, esportare armi ed evitare la via diplomatica per risolvere i conflitti ricorrendo a interventi militari quando conviene; si può smontare ogni menzogna diffusa dal primo ignorante di passaggio sui privilegi concessi agli/lle immigrati/e e sui danni che essi provocherebbero alla nostra economia/cultura/nazione… Si può, si deve. Costi quel che costi, col rischio di farsi disprezzare o peggio da chi sputa veleno e sentenze senza conoscere i fatti, senza interrogarsi, senza avere un briciolo di umanità né di solidarietà. Prima o poi qualcuno dei/lle nostri/e interlocutori/trici drizzerà le orecchie, aprirà gli occhi, accenderà il cervello. Vale la pena tentare: con le immagini, le parole, la musica, coi fatti concreti, sempre e comunque.

Lyrics:

Wrong place of birth, wrong papers, wrong accent
“Your presence here is unacceptable accident“
They turn backs on them, puppetry level’s excellent
They’re spitting lies in their eyes and never hesitate

You know what I’m saying, it’s time to spare your prayers
They look the other way for terrorists, smugglers and slavers
But if you’re running for your life, trying to escape the slaughter
They’ll let your wife die and feast on your sons and daughters

Poison the water, the feast of legalized murder
Their lies about human rights don’t cost a quarter
They bomb your home, let the beast roam, close the border
And feed the world another tale by double-tongued reporter

Forward to the past, Can I ask? Do you remember
How the allies were sending people back to gas chamber?
Beware the beast, at least you know what to expect
The circle closes and the history repeats itself

Hook 2x:
Papers, please! They get you on your knees
Straight face, race to the death, Deaf to your pleas
Who’s the real illegal people, who’s the real disease?
We’re all immigrants, We’re all refugees.

The circle closes and the history repeats itself
Like 80 years ago abandoning those to the death
Who happened to be born on the wrong side of the fence
Ignoring obvious atrocities and cries for help

Not all was apathy – fallacy, lost humanity
Progressive wanna-be society begets another malady
No remedy, humanitarian calamity
another people denied the right to live with vanity

Another Human race catastrophe,
Another instance of entitled masses showing lack of empathy
Authorities are waging war, you people lie in idleness
Refuse to take responsibility for leaders’ violence

Communities of hypocrites reveal their rotten values
“Civilized world” devoid of basic principles of kindness
Close minded, close the borders: entry denied
The price of economic comfort is their innocent lives

Hook 2x:
Papers, please! They get you on your knees
Straight face, race to the death, Deaf to your pleas
Who’s the real illegal people, who’s the real disease?
We’re all immigrants, We’re all refugees.

Face the facts, no thanks, “Your passport lacks stamps
Please go back for war, torture and the death camps”
Join the ranks, labeled as illegal people
Cursed by those who suck blood from golden calf’s nipple

Broken families, tragedies, who the devil is
They put another spiked wall on the land they’ve seized
Barbed wire, peace expires, lost evidence
Infection of the whole soul, unknown genesis

Irie Révoltés.

Non è sempre facile catalogare una band in base al genere musicale, nel caso degli Irie Révoltés è praticamente impossibile. Nato nel 2000 a Heidelberg, in Germania, il gruppo composto da 9 eclettici musicisti propone un mix di hip-hop, reggae, dancehall, musica elettronica, pop, punk e ska con testi politici scritti in tedesco e francese (il padre dei fratelli Charlemoine, entrambe cantanti, è di origine francese). È proprio l’impegno politico, oltre all’originalità musicale, il segno distintivo degli Irie Révoltés, che nel corso degli anni hanno collaborato a numerose campagne sociali, antifasciste, antirazziste e messo in piedi diversi progetti. Notevole è l’iniziativa a sostegno di persone affette da disabilità fisica in Senegal, avviata nel 2004, attraverso la quale vengono inviati nel Paese africano deambulatori, sedie a rotelle e stampelle, così come l’appoggio ad un progetto, sostenuto tra l’altro dalla squadra di calcio FC Sankt Pauli, per l’accesso all’acqua potabile nelle zone più povere del mondo. Nonostante il discreto successo raggiunto negli ultimi anni soprattutto a livello nazionale, i numerosi concerti tenuti anche all’estero e il numero crescente di estimatori, i membri del gruppo rimangono fedeli a se stessi e portano avanti l’obiettivo di sempre: coniugare musica allegra e ricca d’energia con contenuti politici che non rimangono lettera morta ma vengono costantemente tradotti in impegno personale e che sono mirati a suscitare riflessioni che portino gli/le ascoltatori/trici ad agire per cambiare la società.

                                            Antifascista

 [Rit.] Sono nato così, rimarrò così finchè non muoio! Sono nato così: antifascista! Per sempre! Per sempre! Sono nato così, rimarrò così finchè non muoio! Sono nato così: radicale! Radicale! Radi-radicale!

Vedo propaganda nazista, gira ovunque in rete- Si sente a suo agio in parlamento, nelle nuove leggi sull’ingresso [immigrazione]- Nel giro di clienti abituali nei locali, dove si aizza contro l’apparente ondata di stranieri, si sente a casa- È ben piantata nelle menti- Senza intelligenza, con armi e denti affilati- A innumerevoli persone viene data la caccia fino alla loro morte- Punta su razza, condottiero e madrepatria- Quest’ideologia ha fatto a brandelli così tante vite umane.

Mi chiedo come mai così tante persone guardino da un’altra parte- È paura, accettazione o ignoranza?- Io oso, perchè più persone trovano il coraggio di opporsi- più la resistenza è forte [x2]

 [Rit.]

Vogliono diffondere la loro immondezza nel mezzo della società- Con Thor Steinar* si allontanano dallo stile “testa rasata e bomber”- Distribuire cd nei cortili delle scuole, fare a botte negli stadi- Cantautori, rock di destra, ce n’è per tutti i gusti- Ottuse affermazioni di destra si ritrovano in molti partiti- Bruciano le case e idioti gridano “Sieg Heil!”- Qualcuno è scioccato, ma poca gente interviene- Io non starò fermo, io voglio il globo libero dai nazisti.

Mi chiedo come mai così tante persone guardino da un’altra parte- È paura, accettazione o ignoranza?- Io oso, perchè più persone trovano il coraggio di opporsi- più la resistenza è forte [x2]

[Rit.]

Il fascismo è pericoloso- ogno giorno c’è gente che viene uccisa- Il fascismo è maligno- impregna troppe menti [x2]- Quanto a razzismo e xenofobia- qui finisce la mia tolleranza- Nessuna comprensione per questi imbecilli- Non aspetto più, passo all’offensiva- Il mio attacco è potente e dinamico- se necessario mi difendo con calci frontali- Questa è la mia forma di coraggio civile- Resto radicale, resto antifascista.   [Rit.]

(Traduzione mia, blackblogger.  Nota: *Thor Steinar è una marca tedesca di abbigliamento prodotta da neonazisti per neonazisti. L’intera frase si riferisce al cambiamento di look adottato dagli estremisti di destra nel corso degli anni).

Risposte creative alla campagna di reclutamento del Bundeswehr.

“Mach, was wirklich zählt!”, ovvero “Fai ciò che conta veramente!” è il motto di una massiccia campagna pubblicitaria lanciata dall’esercito tedesco (Bundeswehr) dal Novembre scorso per promuovere il reclutamento nelle sue fila. Quando ho visto passando per strada il primo di una lunga serie di manifesti pubblicitari, costati insieme a cartoline, sito web e altri ammennicoli la modica cifra totale di 10,6 milioni di Euro di denaro pubblico, mi sono chiesto subito un paio di cose: quanto fossero idioti i personaggi che hanno scelto gli slogan riportati sui manifesti (“Noi combattiamo anche per far sí che tu sia contro di noi”, “La vera forza non la trovi tra due manubri”, “Credi che sia figo essere soldato/soldatessa?”, eccetera…) , quanto idioti fossimo noi contribuenti nel pagare le tasse che vanno a finanziare certe porcate, ma sopratutto come si potesse rispondere ad una simile oscenità… Non che io non abbia trovato subito un paio di slogan appropriati che sarebbero stati utili per riassumere efficacemente la vera funzione dell’esercito in Germania e altrove, ma non  disponevo a breve termine dei mezzi per poter rispondere in modo esteso ed efficace alla propaganda militarista appena avviata: si fa quel che si può, ma nel mio caso si trattava di troppo poco. Pochi giorni fa sono però venuto a sapere che un pugno di artisti/e e attivisti/e politici/che riuniti/e nel gruppo “Peng-Kollektiv”, con la modica cifra di 100 €, ha messo in ombra, in dubbio e in ridicolo la campagna della Bundeswehr, aprendo un sito con link e grafica simili a quello originale usato per incoraggiare l’arruolamento dove si possono leggere alcune informazioni (verificabili) che ai signori dell’esercito non sarebbe mai passato per la testa di pubblicare, ad esempio il numero di soldati suicidatisi quest’anno o la percentuale di donne che subiscono molestie sessuali nell’esercito. Il sito è diventato in pochi giorni virale e ha dato l’imput sul web ad una serie di osservazioni, commenti e grafiche contro l’iniziativa militarista. Per quanto riguarda invece i manifesti, attivisti/e del collettivo “Abteilung zur sichtbaren und inhaltlichen Verschlimmbesserung unhaltbarer Truppenwerbung (AbtVerschlTruWer)” hanno tappezzato la zona nella quale ha sede il ministero della difesa tedesco con manifesti pubblicitari modificati. Ecco alcune foto dell’adbusting:

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“Bombardare per la pace è come fottere per la verginità”

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“Siamo via: guerra lampo in Siria. Nonno sarebbe stato così orgoglioso.”

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Difendere con la violenza lo sfruttamento. Il vostro esercito”

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“Nessuna idea di niente? Nessun problema! Prendiamo volentieri anche gli stronzi”

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“Anche gli animali combattono per far sì che noi possiamo mangiarli.”

Per completare il quadro segnalo un’altra azione compiuta da ignoti a Berlino, che nella notte del 9 Novembre scorso hanno “ridipinto” la facciata dello showroom dell’esercito tedesco per protestare contro la propaganda per l’arruolamento e contro la “normalizzazione” della guerra.

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