Abolire il lavoro?

La gran parte dei movimenti politici emancipatori (o presunti tali) affronta il tema del lavoro in chiave di miglioramento delle condizioni della classe lavoratrice, conquista di diritti e, nei casi più radicali, sostiene l’abolizione del lavoro salariato. Sono in pochi però a mettere in discussione l’essenza del concetto di lavoro proponendo esplicitamente la sua abolizione. Abolire il lavoro? Sembra un’idea strampalata che lascia perplessi anche molti anarchici, per non parlare dei marxisti (il marxismo è fondato su concetti quali lavoro e classe lavoratrice ancor più dell’anarchismo, a sua volta più variegato e ricco di sfumature e di correnti a volte molto diverse tra loro), eppure vi sono teorici che si sono concentrati proprio su questo tema mettendo in discussione il dogma del lavorismo. Uno di questi è lo statunitense Bob Black, autore tra l’altro nel 1985 del famoso opuscolo “L’abolizione del lavoro” (“The abolition of work”, raccolto poi nell’antologia “The abolition of work and other essays”) nel quale si sostiene che il lavoro è un’attività che sfrutta i più per arricchire pochi, organizzata quasi sempre in modo autoritario e degradante, stancante e pericolosa a tal punto da essere spesso causa di morte o lesioni gravi, quasi mai stimolante per l’intelletto e perfino, nella stragrande maggioranza dei casi, inutile. Il lavoro debilita l’essere umano più che nobilitarlo, é quello che ho sempre sostenuto riferendomi al suo esercizio nell’attuale società e leggendo il breve scritto di Bob Black ho trovato un complemento interessante alla mia riflessione. Black a mio parere non mette tanto in discussione il concetto di attivitá umana finalizzata a produrre beni o servizi, ma sostiene in pratica che si dovrebbero ripensare le attività umane in chiave di gioco, liberandole dalla loro forma organizzata, rigida, continuativa e coercitiva tipica della società capitalista (a scanso di equivoci è bene sottolineare come la mannaia di Black si abbatta ancor più impietosa sulla condizione lavorativa nei Paesi retti dal cosiddetto socialismo di Stato- URSS, Cina, Cuba, eccetera). La disgregazione della famiglia tradizionale e la centralità di una concezione emancipata della sessualitá sono altri due punti chiave dell’analisi proposta ne “L’abolizione del lavoro”.

Ora, partendo da ciò che trovo interessante nelle riflessioni esposte da Black nell’opera succitata, posso delineare grosso modo quello che per me sarebbe un possibile modello lavorativo in una società autogestita ed emancipata. Innanzitutto ciascuno dovrebbe poter svolgere le mansioni che più gli/le aggradano, siano esse “produttive” o meno; le mansioni meno “appetibili”, a patto che ve ne siano (personalmente non troverei degradante dover pulire i gabinetti usati da altri, a patto che ciò non diventi la mia unica occupazione e che io possa svolgerla in modo occasionale e senza pressioni di tempo o ordini superiori), verrebbero svolte a rotazione. Se si eliminassero una serie di attivitá oramai divenute inutili vi sarebbe piú tempo da dedicare a cose gratificanti o importanti, così come se tutti/e impegnassero una frazione del loro tempo nello svolgere attivitá produttive, il tempo autogestito e dedicato, perchè no, all’ozio sarebbe molto maggiore di quello del quale la maggior parte di noi dispone oggigiorno. Sull'”inutilità” di certi lavori lo stesso Black fa alcuni esempi calzanti (“commessi, militari, manager, poliziotti, agenti di borsa, preti, banchieri, avvocati, insegnanti, proprietari, addetti alla sicurezza, pubblicitari, e tutti quelli che lavorano per loro”) e a ciò si deve aggiungere il fatto che nel sistema capitalista vengono prodotte troppe merci, moltissime di esse non sono necessarie e vengono buttate via ancor prima di venir consumate/usate.

Il fatto di non poter organizzare da sè il proprio lavoro e di conseguenza il proprio tempo è un problema che affligge gran parte delle persone che lavorano nell’attuale società. Se invece l’organizzazione delle mansioni, del tempo, della produzione venisse affidata a chi effettivamente svolge le mansioni stesse, in modo orizzontale, affidando i compiti amministrativi a rotazione, la situazione cambierebbe in modo percettibile. Cornelius Castoriadis, marxista eterodosso le cui idee trovo personalmente interessanti e fonte d’ispirazione, ha pubblicato a suo tempo alcuni articoli potenzialmente molto validi sul tema “autogestione vs. gerarchia” (qui la seconda parte), nella quale si affronta anche l’aspetto della retribuzione dell’attività lavorativa. A tale proposito è fondamentale interrogarsi su questo punto: in che modo andrebbe remunerato il lavoro in una società liberata? Ciò dipenderà ovviamente anche dalle scelte che in tale (o tali) societá verrà fatta sulla questione del denaro, se esso verrà del tutto abolito o sostituito da altre forme monetarie diverse da quelle che conosciamo oggi. Altri due nodi fondamentali della questione riguardano a mio parere la specializzazione e la suddivisione del lavoro: se ne può fare a meno? E se si dovesse constatare che la risposta è un “no”, è possibile evitare l’alienazione di chi svolge le attivitá produttive pur mantenendo la divisione del lavoro-almeno entro certi termini?

Altra questione affrontata di straforo da Black è quella della tecnologia. Personalmente mi trovo d’accordo con ciò che egli accenna su questo aspetto, credo che molte tecnologie siano potenzialmente neutrali e quindi si possano usare per fini emancipatori, anche se non va dimenticato anche qui una possibile ed eccessiva specializzazione del lavoro e la conseguente creazione di una “casta” di tecnocrati esperti di ciò che le masse non sono in grado di comprendere e far funzionare- su questo aspetto si soffermò anche Alfredo Maria Bonanno nel suo scritto “Tesi di Cosenza. Il problema dell’occupazione. Per una critica della prospettiva anarco-sindacalista”. Se escludiamo i primitivisti alla Zerzan rimane comunque difficile rifiutare qualsiasi tipo di progresso tecnico, meglio piuttosto chiedersi a chi può giovare tale progresso, quanto costa in termini di sfruttamento delle risorse e come esso viene impiegato.

Rileggendo quel che ho appena scritto mi accorgo di aver posto più domande che risposte, ma in fin dei conti è così che si dovrebbe fare. Non mi dispiace ammettere che le risposte a questioni di importanza cruciale spesso possono essere trovate grazie al contributo di un gran numero di persone che tentano non solo di teorizzare, ma anche e soprattutto di mettere in pratica le loro idee sottoponendole alla prova dei fatti e adattandole alle circostanze ed ai tempi oltre che alle esigenze individuali e collettive, senza dogmatismi, tenendo ben presenti quei pochi ma fondamentali princìpi che animano tutti gli anarchici: libertà, uguaglianza nella differenza, autogestione, partecipazione diretta, autonomia, orizzontalità, decentralismo, felicità individuale e collettiva.

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